IL LAVORO DEI CAMPI E DELLA STALLA

I lavori per le donne erano compiti connessi all’accudimento e al nutrimento della famiglia, all’andamento della casa, alla cura degli animali da cortile, alla coltivazione degli ortaggi. 

Si trattava di alvar i pujén,  i cuné, al galén, al ninén,  guarnar, mónzar, far al fòj, far la zùtta pr’al vach e pr’al gugnén. 

Bisognava anche tgnìr adrè a i oeuv, a la ciòssa, a la cunilia,  attendere insomma a tutte le faccende della riproduzione dei piccoli animali.

Era compito delle donne curare l’orto, dopo che il marito aveva vangato e sarchiato. 

Vi era inoltre una serie di attività di affiancamento agli uomini, nei lavori dei campi, lavori nei quali le donne prestavano lavoro pesante e senza risparmio:  

Médar, rastlàr, spassàr ( al fén),  far i vinsìj, andar par foi.

IL LAVORO IN CASA E IN FAMIGLIA

Il principale compito delle donne era, naturalmente, la cura dei bambini, dei vecchi di casa e degli infermi. 

 

I lavori da compiere in  casa erano  comunque molti, ed andavano ben oltre la normale pulizia di arredi e biancheria, come si intende oggi. Come accadeva per la cucina, si trattava anche di fabbricare alcuni beni, che di norma non si acquistavano. 

La pulizia della casa  

Per quanto la serie di lavori domestici fosse simile a quella attuale, differivano invece moltissimo gli attrezzi e i prodotti a disposizione delle massaie. La scopa era di semplice saggina o di crini vegetali.     Non esistevano spugne, né naturali né sintetiche, se non nel dopoguerra. Per strofinare, lucidare, pulire, si usavano stracci e straccetti adeguati. Si trattava  di vecchi indumenti, tagliati e destinati, secondo la morbidezza, a compiti diversi: un vecchio paio di calzoni andava bene per lavare il pavimento, un cotone morbido per spolverare o pulire i vetri. 

Una mussola o un’altra stoffa a trama  fine si mettevano da parte per filtrare il latte o il brodo, o per sgocciolare la ricotta. Una vecchia coperta sarebbe stata destinata a coprire il pane durante la lievitazione o il trasporto, ecc…  

Un pavimento di piastrelle di graniglia ( detta anche marmiglia)  si teneva come si farebbe oggi, con acqua e un po’ di cera. 

Per spazzare il pavimento di piane, invece,  occorreva prima spruzzarlo di acqua per non sollevare polvere. Il gesto era il medesimo che si usava per inumidire i panni da stirare: si immergeva la punta delle dita in una scodella d’acqua e si scuoteva la mano verso il basso, in modo da spargere una miriade di gocce, il più piccole e uniformi possibile. Si diceva “brűscar”. Dopo aver spruzzato il pavimento si spazzava, qualche volta si lavava con uno straccio. 

I piatti si risciacquavano con acqua calda e la risciacquatura si metteva in un secchio, per il beverone delle mucche. 

 Non esistevano detersivi, detergenti, bottigliette e spruzzatori. 

Vicino al lavandino era disponibile un recipiente contenente il sapone:  alcuni, di latta o di ceramica, erano fatti di diversi scomparti, con sopra scritte le tre parole, in sequenza: sapone, sabbia, soda. E questi erano i prodotti a disposizione per lavare piatti e pentole. Per togliere le macchie da pentole e posate bastava intingere lo straccio umido nella cenere del camino. Le pentole si pulivano con soda e sabbia. Si usavano sabbia e aceto, per lucidare il rame. 

Il sapone era il classico sapone da bucato, che, nei periodi di magra, si faceva in casa, facendo bollire a lungo grasso e soda. 

Per sconfiggere uno sporco particolare si poteva ricorrere all’aceto, alla benzina o allo spirito. 

Il bucato e la stiratura 

Il bucato è uno dei miti più abusati, uno dei luoghi comuni più frequenti: il profumo del bucato di una volta, il bucato steso sui prati, il bucato asciugato al sole…

Era in realtà un’operazione durissima e faticosissima.  Il bucato grosso si faceva una volta al mese, ma le cose più piccole si lavavano ogni volta che ce n’era bisogno. 

I panni da lavare si mettevano dentro un mastello di legno, munito di un tappo alla base. Sopra di esso si stendeva un vecchio telo e si riempiva di cenere. Vi si versava sopra, magari usando un vecchio vaso da notte, dell’acqua bollente, e, quando era coperto d’acqua, si lasciava riposare per molte ore. Anche tutta al notte. La mattina dopo si toglieva il tappo e si faceva uscire l’acqua sporca ( il ranno,  “al ram”  )   A questo punto veniva la parte più faticosa.  I panni andavano sfregati e sbattuti su un’asse, per togliere le macchie, e poi risciacquati. Quest’ultima operazione richiedeva molta acqua pulita e quindi si andava al canale o ad una fontana adibita a questo scopo.  L’acqua corrente era gelida, in tutte le stagioni. Un lenzuolo  matrimoniale di canapa, inzuppato d’acqua, pesa dagli otto ai dieci chili e farlo andare su e giù, su e giù, dentro l’acqua gelata, a forza di braccia e di schiena, richiedeva un buon allenamento. Le ginocchia si indolenzivano sulla pietra bagnata che faceva da inginocchiatoio, i vestiti e le scarpe si bagnavano  e le mani, d’inverno,  si riempivano di screpolature e di geloni. Le mani e le ginocchia di una donna anziana portavano le tracce  delle centinaia di bucati fatti.

[ C ] ( ” Ho partorito a febbraio. In gennaio tornavo dalla fontana col mastello di panni lavati e il grembiule bagnato che avevo davanti si gelava, strada facendo: arrivavo a casa col grembiule stecchito come un pezzo di cartone. ” ) . 

I capi  più piccoli si strizzavano a forza di braccia; per strizzare le lenzuola invece ci volevano due persone che le prendevano  alle estremità, ma, anche così, non era facile. Ci voleva forza nelle braccia e una presa salda delle mani. Infine si poteva stendere dove si voleva: sulle siepi, sull’erba, sulle corde tese apposta.  Le vacche e le pecore, però,  erano ghiotte di panni lavati, e capitava facilmente che si fermassero a brucare un canovaccio o una camicia. Una vacca poteva mangiarsi anche un piccolo lenzuolo, se ne aveva il tempo. 

[ R ] Mia madre era vicino alla fontana e stava risciacquando in un secchio un piccolo bucato di indumenti leggeri.   Di mano in mano che aveva strizzato un capo  lo metteva in un catino di smalto, accanto a sé, sulla muretta della fontana, e continuava a sciacquare  altri panni nel secchio.  Io avevo otto anni, stavo alla finestra della camera e guardavo la gente per la strada. Si sentì il rumore dei campanacci, tre o quattro mucche arrivarono, senza padrone, si avvicinarono alla fontana e bevvero dalla vasca. Mia madre continuò a lavare nel secchio. Una delle mucche, prima di allontanarsi, si fermò ad annusare il catino dei panni strizzati, poi tirò fuori una lingua lunga e prensile e …si pappò la cintura del mio vestito della festa. Era lunga due metri, la cintura, così ci veniva un bel fiocco dietro la schiena. Io gridai. Mia madre si voltò e vide l’ultimo palmo di stoffa sparire dentro la bocca della mucca. Allora, davanti ai miei occhi sbigottiti, mia madre, come un domatore da circo,  aprì la bocca della mucca, ci infilò dentro una  mano, e poi tutto  il braccio … La  mucca restava immobile, con la bocca aperta, mentre mia madre recuperava un lembo della cintura e la tirava fuori tutta, come la corda di un pozzo.   E io ero rimasta immobile, a bocca a aperta, esattamente  come la mucca.

Ho imparato in quell’occasione che :

1° – le mucche non hanno i denti di sopra 

2° – che, qualunque cosa si faccia loro,  non mordono. 

 Stirare

Si stirava sul tavolo di cucina, generalmente di marmo, sul quale si stendeva una coperta pesante, piegata più volte. Sopra si metteva un telo bianco pulito.   Si inumidiva il bucato con l’acqua di una scodella, con lo stesso gesto del “bruscare” che si usava per bagnare il pavimento, ma raccogliendo meno acqua, per dare una distribuzione più uniforme e leggera. Si arrotolavano bene i panni  per mantenere l’umidità e diffonderla a tutto il tessuto … Poi si stirava. Con le attuali assi pieghevoli è più facile stirare le camicie, le cose piane, come tovaglie e lenzuola,  invece venivano molto bene su un bel tavolo ampio.   Ma soprattutto era complicato, in epoche pre-elettriche, scaldare il ferro.  Ce ne volevano due, di quelli di ferro pesante, pieni, da scaldare sulla stufa e da usare alternandoli. Oppure uno di quelli alti, cavi, col coperchio, da riempire di brace.  Il meglio era disporre di una batteria di ferri di vario tipo e misura. Quelli di ferro massiccio si potevano trovare in diverse misure, fino a quelli piccolissimi per pieghine e pizzi.  Quel che è più curioso, per noi, è che si stirava tenendo in mano le presine, perché il manico del ferro da stiro era bollente. 

E, quando si toglieva la coperta, il tavolo era bagnato, per la condensa che si formava fra il marmo freddo e la coperta. calda e umida.

Lana 

Anche se le pecore venivano lavate prima di tosarle, facendole andare avanti e indietro in un ruscello o in un fosso,  la lana, dopo la tosatura, andava comunque  lavata, in acqua saponata e calda, risciacquata e stesa al sole ad asciugare, per eliminare le impurità, il letame, ma soprattutto il grasso naturale della lana ( la lanolina), dall’odore sgradevole . Si teneva separata, secondo la qualità o il colore. Poi la si destinava a imbottire trapunte e trapuntini,  cuscini o materassi ( ad esempio quella scura o corta) . Quella più morbida, bianca e lunga invece si filava, con i consueti attrezzi: la conocchia e il fuso. Si avvolgeva in matasse con il guéndal, poi, dalle matasse, si facevano gomitoli. 

E’ noto che ci sono sempre molti modi per fare uno stesso lavoro, dunque anche un gomitolo si può fare in modi diversi:  o semplicemente avvolgendo il filo sulla mano, a caso, oppure si può fare un gomitolo… col buco.  C’è un modo per avvolgere il gomitolo, tenendolo tra il pollice e l’indice (o il medio), senza mai spostare la punta di queste due dita, facendo ruotare il gomitolo, mano a mano che cresce, come fosse un mappamondo.  Questo modo di procedere lascia ai due poli un foro profondo, attorno al quale i fili girano creando una geometria perfetta. Questo gomitolo rimane bello e compatto anche durante il successivo lavoro a maglia, mentre rimpicciolisce, fino all’ultimo codino di filo: è un gomitolo duro come una palla da tennis, ma il suo pregio consiste nel tenere ben tesa e stirata la lana, e questo  tornava  utile soprattutto nel caso ( molto frequente ) in cui la lana provenisse da un vecchio lavoro a maglia disfatto.  

Per stirare bene il filo già usato c’era anche un altro sistema: si facevano matasse morbide, avvolgendo il filo tra pollice e gomito ( la matassa diventava lunga quanto l’avambraccio). Poi si lavavano ed infine si stendevano ad asciugare infilandole, una dopo l’altra,  in un bastone. Un manico di scopa poggiato su due mobili andava benissimo. 

Un altro bastone si infilava nell’occhiello inferiore delle matasse e lo si lasciava infilato così, senza alcun sostegno. Con il suo peso teneva ben tese le matasse che, asciugando,  tornavano come nuove. 

Allo stadio di matassa la lana veniva, se necessario, tinta. Si tingeva usando il colore in polvere acquistato dal droghiere, ed il prodotto era uno solo: il vecchio Super Iride della premiata ditta Ruggero Benelli, il cui manifesto aveva come pubblicità un demonio rosso, nudo e ridente che danzava su un arcobaleno. C’erano però anche un paio di tinte che si potevano ottenere con prodotti naturali. Le bacche del sambuco davano un certo rossiccio, il mallo di noce, invece,  dava una tinta tra il marrone e il verde, che qualcuno mi ha descritto efficacemente come “color bida” . Questi colori, più che da soli, erano buoni per essere mescolati con un filo naturale e davano così begli effetti mélange. 

 Per lavori più fini, destinati alle ragazze o ai neonati, si acquistava, in matasse,  la lana parigina, ad un capo solo, che si chiamava col nome poetico di “Lan’na ad sippria”, lana di cipria.

La canapa

La canapa cresceva in luoghi umidi, con caratteristiche particolari, raggiungendo l’altezza di due metri circa. La fibra tessile era costituita da lunghi filamenti molto resistenti, che percorrevano il gambo per tutta la lunghezza. Dopo la raccolta i gambi privati delle foglie venivano messi a macerare nell’acqua, per ammorbidire le parti da eliminare, poi battuti con mazzuoli di legno o apposite gramole scanalate,   per eliminare tutti i detriti  vegetali e liberare i filamenti.  Si ottenevano così matasse di stoppa: esattamente quella che usano gli idraulici per avvolgere le giunzioni dei tubi.  La stoppa poi veniva filata, come la lana.  Con una particolarità: per riuscire ad avvolgere su se stesse le fibre di canapa, di per sè dure e secche, occorreva mantenerle leggermente umide e a questo si provvedeva  inumidendo continuamente il pollice e l’indice sulle labbra. C’era persino un trucco per produrre saliva a sufficienza: si teneva in bocca un pezzo di  pera secca.  La canapa così filata veniva poi avvolta in matasse con il guéndal e infine tessuta al telaio. 

( R ) Mia madre mi ha regalato una pezza di canapa tessuta a telaio, ancora nuova, arrotolata, con le cimose intatte, nemmeno mai diventata lenzuolo.  Me l’ha posta sulle braccia dicendo: “Tienila da conto: sapessi quanta saliva mi ci è voluta per filarla!”  Lei l’aveva filata e mia nonna Lia l’aveva tessuta a telaio. 

GUARDA COME SI FACEVA

….IL FORMAGGIO   

  [ C ] “Si portavano a casa questi secchi pieni di latte, si colava (con al coladór, di legno, poggiato su un triangolo di legno) “In tal coladór a gh’era al clümm ” ( che era una scorza di una pianta, fine  fine, ben lavata e rinsecchita,  arrotolata) Si colava il latte da tutte le impurità. Quello della sera soltanto. Si metteva dentro delle zuppiere larghe e basse, di terracotta, davanti alla finestra, se era estate. D’inverno invece si scaldava leggermente sulla stufa prima di andare a letto . Al mattino si toglieva la panna e si metteva da parte per fare il burro. 

Con un bastone tagliato in quattro per il lungo si faceva una frusta per il burro.  Con questa frusta si batteva la panna per fare il burro.  La sàngla si usava d’inverno perché il latte era più grasso. Si lavorava un pochino con la mano in modo che fosse ben raccolto, si buttava via il siero, nel recipiente si metteva un po’ di acqua fredda e si lavorava ancora, in modo che buttasse fuori tutto il siero. Se lo vendevi figuravi bene perché si manteneva fresco e non diventava acido presto. Era dalle gocce del siero che partiva l’inacidire del burro, meno ce n’era e meglio era.  Alla fine facevi un panetto con la forma e il peso che volevi.  Si facevano dei disegni con la punta del cucchiaio. Si avvolgeva dentro  delle  foglie grandi,  fresche, ben lavate e quella era la carta.  Oppure si poteva comprare della carta oleata. Non c’era altro. 

Il latte si metteva nel paiolo e bisognava mettere il caglio (al cagg’)  Il caglio lo faceva anche Batist, che aveva le capre. ( nota: era un pezzettino di stomaco di capretto essicato. )  Ne prendevi un mezzo cucchiaino, lo scioglievi con un dito in una scodella e lo colavi col colino dentro al latte. Dopo un’ora o due il latte era cagliato e bisognava romperlo con il mestolo forato. Si sbatteva in modo da far venire dei granelli piccoli, si lasciava riposare un’oretta, si e no. Quello era il barsòc. Poi ti prendevi la fattora, con la basla sotto e te la mettevi vicino. Dal paiolo prendevi la caggià, con le mani, e la tiravi verso di te, per farla tornare compatta. Poi la raccoglievi, la stringevi bene per far scolare fuori il siero e la mettevi nella fattora. Quando la fattora era piena, la schiacciavi ancora bene con le mani per far uscire le ultime gocce di latticello, voltandola sopra e sotto più di una volta. Alla fine si metteva il sale grosso, da tutt’e due le parti e si lasciava riposare.  Il giorno dopo si metteva sopra un’asse sospesa, che si chiamava “furmajara” e si cominciava la stagionatura. Dopo quindici o venti giorni era già buono da mangiare. Se si voleva si poteva lavare la crosta del formaggio in stagionatura col latticello rimasto dopo che si era fatta la ricotta. Si lavava con uno straccino e si lasciava asciugare bene. 

Dopo tre mesi era buonissimo da tavola. Dopo sei mesi si poteva anche usare da grattugiare. 

 

 Poi si faceva la ricotta. Il siero rimasto nel paiolo si metteva sul fuoco e si scaldava molto lentamente. Dapprima veniva a galla ancora qualche fiocco di barsòc. Quello bisognava toglierlo perché era ancora formaggio, era più duro della ricotta e la faceva diventare meno buona. Si dava ai pulcini, che lo mangiavano volentieri e gli faceva bene.  Poi saliva a galla la ricotta vera e propria, la si raccoglieva col mestolo forato e si metteva in un telo pulito.  C’era un pezzo di corda appeso in cucina, che era la corda della ricotta, e si legava questa pezza, poi si appendeva sul lavandino a scolare. Se si preferiva una ricotta più morbida e meno asciutta si metteva direttamente nella scodella, senza sgocciolarla. “

 

[ R ]    Ho un ricordo molto dolce. Un ricordo di ricotta.

Ero bambina, di cinque o sei anni, vestita col vestito della messa, e gironzolavo, aspettando che mi chiamassero a tavola, tra la casa dei Tufi e gli Aqualén. Sul viottolo sotto la casa di Oreste incontrai sua moglie, la Maria. Anzi, come si diceva allora, la Maria d’Urèste.  Aveva in mano un pugno di ricotta e me la mostrò, immaginando che io, bambina di città, non ne avessi mai visto. Invece io la ricotta la conoscevo, ma donne che andassero in giro per la strada con manciate di ricotta, così, in mano, non ne avevo mai viste. La Maria d’Oreste mi spiegò che la portava ai pulcini, che ne erano ghiotti, e che i pulcini non avevano bisogno neanche di un piattino, per mangiarla. “Vuoi assaggiarla? E’ buona !” Mi disse. E io allora ne presi un pizzico, poi direttamente un morsichino, poi una beccatina… E poi mangiai tutta la ricotta, immergendo il viso nella sua mano, che sapeva di fumo di legna e di latte fresco. 

Categorie: Il lavoro