Una civiltà contadina, tipica dell’Appennino emiliano.    Dapprima inserita, anche se ai margini,  in un mondo la cui base economica era, da secoli, l’agricoltura, poi sempre più rapidamente trascinata nella crescita sociale ed economica del dopoguerra.

Rappresenta oggi un modello di società completamente superato, cambiato. E questo è inevitabile, probabilmente giusto. 

Che sia anche dimenticato, questo è un po’ meno inevitabile, un po’ meno giusto ed è sicuramente un impoverimento, un’occasione perduta per tutti noi.

Non voglio tracciare un quadretto pastorale. Era durissima fatica sempre, spesso autentica miseria. 

Ma c’erano alcuni elementi, che sono andati perduti, e sui quali varrebbe forse  la pena di riflettere un po’. Non per recuperarli (anche perché in ben pochi casi sarebbe possibile), ma  perché, qualche volta, voltarsi a misurare il cammino percorso serve a valutare meglio il punto in cui ci troviamo.   

—————————————–oOo—————————————–

 

Lia Tufi 1940

Il tempo, l’acqua, le stagioni,  il denaro, il lavoro …avevano valenze molto diverse da quelle odierne . La  gente viveva con questi elementi in un rapporto talmente differente da quello di oggi che questa distanza ci rende persino difficile il confronto.  Siamo già passati oltre, siamo già passati alla rincorsa, al recupero, alla nostalgia di questi elementi, come se fossero lontani nel tempo, e invece sono lì, appena pochi decenni fa. 

Con la velocità di assimilazione tipica della nostra epoca ne abbiamo già fatto cartoline, mercatini, moda “vintage”; ne abbiamo fatto circolare immagini strumentali e spesso  romantiche, edulcorate e falsificate, da soap opera.  Ci sono cascati anche illustri registi del cinema.

—————————————–oOo—————————————–

In questo periodo non ci sono voci registrate, non ci sono filmati. Ci sono, in tempi relativamente recenti, delle fotografie.  A volte sono microscopiche, formato francobollo, da guardare con la lente,  e da quelle si capiscono tante cose: dai vestiti, dalle pose, dagli sguardi, dai posti. 

Si capisce se la giornata d’inverno, sulla neve, era calda, a che punto era il lavoro dei campi, la stanchezza della giornata, se c’era di mezzo una partenza o un qualcuno lontano per il quale si era andati apposta dal fotografo, col vestito migliore e la dedica scritta volonterosamente, piano piano, sul retro, a lapis.

Dalle fotografie si intuisce l’umore…  

Gioviale e disponibile, quasi di orgoglio, nelle donne anziane che offrono al fotografo improvvisato il grembiule sciupato da una giornata di lavoro, i capelli malamente nascosti da un fazzoletto, gli occhi da trenta, quaranta, sessant’anni strizzati davanti al sole. 

Sguardo scontroso o  timidamente civettuolo nelle ragazzine. Spavaldo, di sfida,  nei giovanotti.

Quasi sempre serio e sospettoso negli uomini, che per una volta si sono tolti il cappello e hanno la fronte più bianca del resto del viso. Ci sono certi visi, certe braccia che hanno il bruno lucido e le rughe profonde come tagli, uguali a quelle  che si vedono nelle fotografie  dei pellerossa, di fine ottocento.  Hanno quello stesso sguardo che si prende a guardare la campagna, l’orizzonte, molte ore al giorno, o a stare seduti a cena con la sola luce del fuoco. 

 Abbiamo visto più fotografie di Toro Seduto che del nostro bisnonno? Probabile. 

—————————————–oOo—————————————–

 

Negli anni cinquanta e poi, ancora di più all’inizio dei sessanta, la ripresa economica portò un avvicinamento della campagna alla città.  La diffusione dei mezzi di trasporto, il maggior benessere economico  introdussero tecnologie che diventavano disponibili a tutti e, con esse,  alcuni modelli e stili di vita nuovi per il  mondo contadino,. 

L’elettricità diventò una fonte di energia sempre disponibile, e con l’elettricità arrivarono la radio, il frigorifero, la lavatrice. 

Si poteva comperare un po’ di più, rattoppare un po’ di meno, cioè  “smettere di andare in giro con le pezze nel sedere”. Lavare diventava meno faticoso  e quindi cambiarsi d’abito  non era più solo un avvenimento festivo. Le notizie, le novità, le canzoni, le mode  circolavano più in fretta.

Si poteva avere finalmente l’acqua in casa, il telefono in paese…. 

Il lavoro nelle città era abbondante, i mezzi di trasporto per raggiungerlo erano abbordabili. Entrava finalmente, dopo secoli, un po’ di denaro liquido, spendibile.  

L’istruzione si diffuse rapidamente, azzerando l’analfabetismo nel giro di quindici anni. 

Non intendo fare un’analisi sociologica, che tanto non saprei fare. Volevo solo tratteggiare, per sommi capi, l’atmosfera di speranza e di vitalità che ci ha avvolto tutti, in quegli anni. Nelle città il passaggio fu un poco più graduale, nelle campagne arrivò più tardi, ma arrivò tutto insieme, in poco tempo. 

Nei paesi come Agna questo significò un passaggio rapidissimo dall’età del legno all’età della plastica.  Dall’età dei buoi a quella del motore.  

 

Luce, radio, telefono, mezzi di trasporto, denaro, comunicazioni … fu un mutamento tumultuoso, entusiasmante: spesso il pensiero andava ai vecchi che non avevano fatto in tempo a vedere il grande mutamento e che, “se avessero potuto tornare”, non avrebbero creduto ai loro occhi. 

Per prima cosa si “aggiustarono” le case.  Si diceva “ A fàma giüstàr la cà”.  Si misero scale in muratura al posto di quelle di legno, tapparelle al posto degli scuri, mattonelle in marmiglia invece dei piagnón, facciate intonacate e colorate sopra i vecchi muri di sasso. Si allargarono le finestre, si misero le serrature alle porte. 

C’erano sempre motivazioni di salubrità, di igiene, ma, sotto sotto, c’era anche una comprensibile voglia di riscatto…. si buttavano via i vecchi attrezzi per filare, per tessere, per trebbiare, per lavare a mano… e  insieme si dava un calcio alla miseria, alla fatica, qualche volta alla fame.  

A pochi passò per la mente che quei poveri oggetti potesse avere un valore, o almeno un significato. 

Per questo adesso, di fronte agli oggetti raccolti nei cosiddetti Musei della civiltà contadina, diciamo spesso: “Questo ce lo avevamo… chissà che fine ha fatto?” Non ricordiamo il momento in cui ce ne siamo liberati, né la gioia, pure legittima,  con cui lo abbiamo fatto. La roba vecchia si metteva sotto al portico, perché poteva far comodo  e il  riciclo era ancora in uso, ma le cose di legno si tarlarono rapidamente e finirono a fare fiammate nella stufa.  E intanto gli antiquari di città giravano per i paesi  “regalando” cucine di fòrmica in cambio di  tavoli e credenze di legno massiccio, spesso molto belli, e comunque di valore  ben diverso. 

—————————————–oOo—————————————–

Era un mondo senza motori, in cui la forza motrice era l’acqua o la forza animale. Gli attrezzi erano fatti per la mano dell’uomo, (spesso, anzi,  per la mano proprio di “quell’uomo” che se lo era costruito) .

I carri e gli aratri fatti per gli asini e per i buoi. 

—————————————–oOo—————————————–

 

Un mondo in cui le abilità manuali necessarie erano innumerevoli ed una persona “valeva” di più, quanto più “sapeva fare” le cose necessarie alla vita di ogni giorno  (oggi “vale” di più chi può pagare più cose, generalmente sapendone fare una sola:  quella per cui viene pagato)

—————————————–oOo—————————————–

 

Un mondo in cui circolava pochissimo denaro ( per pagare le tasse della terra “al contribusión” ), non si comprava quasi nulla, si produceva tutto, si aggiustava tutto, si andava in prestito, si faceva cambio.

—————————————–oOo—————————————–

Un mondo a maschio e femmina. Senza discussioni.  

Ruoli precisi, in casa e fuori, lavori maschili e lavori femminili.

—————————————–oOo—————————————–

Un mondo senza luce artificiale. Scandito dalle ore di luce e di buio. 

—————————————–oOo—————————————–

Senza radio, giornali, cronaca. Senza scrittura, per quasi tutti.  

In mondo in cui si raccontava, si parlava.  E si cantava parecchio, dappertutto: all’osteria, per strada, per lavorare, per stare in compagnia…Cantare era una gioia da offrire a se stessi  e una abilità da spendere in compagnia. 

—————————————–oOo—————————————–

…Qui parliamo di questo.

[ C ]  Questo segno, che si incontrerà più volte, nel testo,  indica la testimonianza diretta della Signora Caterina Priori, mia madre, e riporta esattamente  le sue parole. 

[ R ]   Sono io. Sono ricordi miei. 

 

Quando dico che sono di Agna è facile che l’interlocutore risponda: “Ah, sì, lo conosco…”  

E sì che non è proprio niente più di uno dei tanti piccoli paesi aggrappati ai fianchi delle nostre montagne. Con la stessa storia, lo stesso destino.  Però Agna ha qualcosa di speciale.

E’ in una posizione bellissima, tanto per cominciare.  

Verso la Val Parma il Monte Caio, alto più di 1.500 metri,  con il  crinale orizzontale, forma una specie di grande anfiteatro naturale.  A destra, vicinissimo, c’è il Groppo, con la sua inconfondibile forma di piramide spaccata, un triangolo di roccia nuda ritagliato in  una pelliccia di boschi.  Al centro di questo scenario, su un poggio tra due torrenti è accucciata Agna, a metà tra il cielo del Caio e il greto del Parma. 

Agna adesso è un paese con i muri e le strade lisciati a cemento bianco, abitato per lo più d’estate; le case sono quasi tutte “seconde case”, anche se tutti coloro che vi sono nati (e i loro figli e i loro nipoti) mantengono con il paese un certo legame. 

Ma non è sempre stato così.

Io ricordo Agna cinquant’anni fa, completamente diversa.  

Erano diversi i materiali, gli odori, i rumori. 

Con le case di pietra calcarea  bionda, presa dal torrente, con le finestre piccole, le porte di legno, il selciato per strada, molti tetti di piane, le legnaie di tavole e lamiera… C’erano stalle, tante stalle e  i carri agricoli al riparo sotto i portici. Le pertinenze della casa erano i luoghi in cui si produceva il cibo: il forno, la legnaia, lo stabbio del maiale, il pollaio, la conigliera.  Era normale vedere vicino a casa la socca con piantata sopra la marassa;  vicino alla porta c’erano sempre due o tre bastoni appoggiati in piedi, in attesa di riprendere la strada. 

E, per la strada, le bide, fresche e secche.   

Le fontane correvano giorno e notte con un fiotto pieno e gelido che la terra buttava senza risparmio e le loro vasche, gli “arbi“, servivano per dar da bere alle bestie.  Arbi è una parola antica, dal latino “alveum”, cavità. 

Era un universo di odori, ognuno particolare e parlante: il fumo di legna, il latte e il formaggio, il fieno, la paglia, il salice, il legno tagliato di fresco…

E poi gli odori degli animali: le mucche, i conigli, le galline, il maiale, le pecore, sebbene fossero tenuti puliti, avevano un’area marcata dal loro particolare odore. L’unico considerato veramente sgradevole era quello del maiale, gli altri facevano parte della vita di ogni giorno, significavano semplicemente cibo, calore, cose buone.  

Non c’erano rumori o suoni artificiali, musica o motori.  I soli  rumori erano quelli dei i carri a slitta (“i Viò” ) che scivolavano sul selciato, gli scarponi con le borchie di ferro sui sassi, la catena del camino contro il paiolo, i secchi vuoti che urtavano sulla pietra della fontana, i versi delle bestie, gli zoccoli di un gregge di pecore che irrompe improvvisamente in paese… ci sarebbe da divertirsi per un fonico che volesse ricreare una colonna sonora di quel periodo… Anche le persone usavano richiami e esclamazioni più frequenti, più forti, più gutturali di adesso, tra di loro e con gli animali.. Il dialetto di Agna era famoso per  essere chiuso, stretto, molto particolare rispetto ai paesi vicini, che ne facevano oggetto di eterne prese in giro.

Non sto cercando di fare un’operazione di nostalgia verso il caro, buon tempo antico: nessuno di noi si augurerebbe di vivere in quelle condizioni, non solo scomode, ma anche difficili da sostenere sotto l’aspetto igienico ed economico.  La nostra vita di oggi è quella che è. Ognuno di noi può rifletterci sopra, fare confronti e tirare tutte le conclusioni che crede.  

Sta di fatto che noi viviamo qui e adesso.

Ma ad Agna, nel corso degli anni passati, hanno vissuto centinaia, migliaia di uomini e donne, una generazione dopo l’altra, un secolo dopo l’altro. Vite difficili, faticose, entro limiti tanto ristretti da esser difficili persino da immaginare, vite che non hanno lasciato nessuna traccia . La sola evidenza del fatto che loro sono esistiti sono le case che hanno costruito, le strade che hanno tracciato e … noi. E’ fin troppo banale . Eppure io trovo commovente pensare che ognuno di noi porta con sé un briciolo di qualcuno che duecento anni fa, all’una dopo mezzanotte, si è appoggiato a questo stesso cantone per parlare con un amico, che ha guardato fuori ogni giorno da questa finestra, che ha fatto cento volte questa stessa strada…

Quello che mi spinge a raccogliere tutto il materiale possibile è il bisogno di rendere visibili queste vite …invisibili; non solo individualmente, ma nel loro insieme, nella loro dimensione di comunità, di civiltà, di cultura (tanto per usare la parola abusata).  Un gruppo umano che, come su un’isola, si organizza per sopravvivere, per produrre cibo, utensili per lavorare, idee per risolvere i problemi, parole per comunicare, gerarchie, usi e consuetudini, regole… Canzoni e storie e giochi .                                                                                                                           

Il villaggio come “isola”.  In un arcipelago di piccole isole.   

L’antenato e al tempo stesso l’antipodo del villaggio globale.

Mi sembra, ancora adesso, incredibile che i villeggianti camminino per queste strade, percorrano con le moto e i fuoristrada le vecchie mulattiere del Caio senza sapere che ogni filo d’acqua, ogni campo, ogni svolta della  strada, avevano  il loro nome, così che, nel discorso, c’erano riferimenti precisi, immagini e mappe immaginarie  perfette. Così che la terra e l’acqua  e le piante diventavano anche loro  personaggi familiari, appartenenti alla stessa storia degli uomini.  

Penso che queste siano cose preziose, importanti, bellissime. Mi sembra imperdonabile che, dopo essersi conservate e tramandate per secoli, da una mano all’altra, da una fatica all’altra, da una mente all’altra, debbano essere annullate e  dimenticate nello spazio, brevissimo per la storia, di cinquant’anni. 

La geografia fatta di nomi è divenuta illeggibile.  

La sequenza rituale dei gesti ripetuti all’infinito è andata perduta.  

La scienza delle nascite  e della terra non serve più. 

Dicono che ai figli bisogna dare radici per crescere e ali per volare. Magari, fra venti o trent’anni, a mio figlio o ai bambini di mia sorella o ai loro figli verrà la curiosità di sapere “da dove vengono”, quanto lontano si può arrivare nel cercare le famose radici, quali visi, quali  nomi, che pensieri avevano quelli che li hanno preceduti.  Magari ascolteranno  (come un altro cimelio!) “Radici” di Guccini e vorranno “capire l’anima che hanno”.  

E, se dovesse mai capitare, allora sarebbe bello che qualcosa trovassero, che qualcosa avessimo conservato per loro.

———————————————–oOo———————————————–

 

  Il linguaggio usato qui è quello parlato, discorsivo, perché la sua semplicità si adatta alla materia. 

Il linguaggio letterario e accademico lo lasciamo ad altre situazioni, ad altre circostanze.  

Molte testimonianze sono della signora Caterina Priori, mia madre. Sono per lo più in corsivo e contraddistinte dalla sua  iniziale,  [C]. Anche qui è stato trascritto fedelmente il suo parlare, senza correzioni. Devo il mio gusto per il piacere di raccontare  a mia madre, alle ore che ha passato parlandomi, a partire da quando io ancora non parlavo nemmeno. 

Lia Simonetti