Il lavoro non aveva un corrispettivo economico di riferimento. Questo è difficile da capire per noi, adesso. Non si era abituati a calcolare quanto valeva un’ora di lavoro. Non qui. Se si andava a lavorare fuori dal paese e ti pagavano, allora si faceva una tariffa a giornata, ma in paese no. Qui si faceva semplicemente quello che si doveva fare, quello che serviva. Ci poteva volere anche mezza giornata per tagliare l’erba con un falcetto a mano su per una scarpata, intorno ai cespugli. Era solo mezzo carretto d’erba, ma faceva comodo anche quella, per i conigli. E il sottobosco pulito aveva un suo valore   (un valore che adesso ci parla in termini di dissesto idrogeologico).

Per fare una maglia di lana bisognava cominciare dalla pecora: accudirla, tosarla, lavare la lana, filarla, tingerla  e infine lavorarla ai ferri.  Ore e ore di lavoro. Mesi di tempo dall’inizio al prodotto finito.

Quanto poteva valere una fascina di legna raccolta nel bosco, suddivisa secondo la grossezza e la lunghezza, legata e portata sulle spalle fino a casa?

Per fare un paio di scarpe occorrevano molte operazioni diverse, scuoiare il vitello, conciare  la pelle, ammorbidirla, prendere le misure, tagliare il modello, e infine cucire e inchiodare e ribattere….

Se volessimo stabilire oggi, con i nostri parametri, il pezzo di queste scarpe … concluderemmo che non ne vale la pena. Ma, allora,il tempo per fabbricarle c’era, invece il denaro per comperarle, quello non c’era. Tutto qui. 

E la conseguenza diretta era che si riparava tutto, si rappezzava tutto, si aggiustava tutto.

Si comperava poco, insomma. Circolava  poco denaro, e, al suo posto, si utilizzavano molte abilità e competenze.

Ma nel fare un lavoro manuale semplice e conosciuto, si pensava, si ragionava, si trovavano soluzioni, si inventava. E poi si parlava, si cantava. O si stava a guardare il fumo del camino, o il paesaggio,lasciandosi scivolare nel soprappensiero, che era frequente e normale.  La manualità e  la creatività  erano un corredo naturale.   L’uso del tempo era legato ai ritmi del sole, delle stagioni, del pasto, del sonno. Pochissimi avevano un orologio. Ed erano gli uominipiù anziani. Le donne e i bambini andavano a dare un’occhiata alla sveglia sul camino della cucina per sapere se era ora di merenda o di far da cena.   Si raccontava molto, c’erano persone particolarmente abili a raccontare storie, a tramandare episodi e aneddoti, a inventare anche molto.  C’erano momenti dedicati al racconto, all’ascolto;   anche all’ascolto collettivo, un ascolto cui partecipavano anche gli occhi e il respiro, il cuore e le mani… 

 Ma per la maggior parte del tempo,  in ogni momento della giornata e della notte, quando si faceva una cosa…  si faceva solo quella. Con la testa e con le mani. Con la concentrazione e la centratura mentale necessari.  Forse era d’aiuto nel mantenere le facoltà mentali fino a tarda età.

STAGIONi dell’anno

Le stagioni dell’orto, i ritmi della vita.Seminare, aspettare, raccogliere. Uso del tempo, accettazione delle calamità-

Anche a proposito di questo, va sottolineata una tranquilla capacità e possibilità di attesa, proiettata nel tempo, nelle stagioni, nel “bisogna aspettare la luna”.

Una istintiva pazienza e fiducia nei ritmi ineluttabili degli organismi animali e delle stagioni.

Da questo nasceva un diffuso sentimento dell’attesa, ilsenso della preparazione, col suo corollario di strumentitecnici e anche di antichi riti propiziatori.Bisognava cioè , usare il tempo dell’attesa perperfezionare la propria preparazione.Tale preparazione comprendevagli attrezzi, il materiale, l’armamentario occorrente, ma significavaanche insegnare ai giovani lecompetenze tecniche, prendere accordi con aiutanti e vicini, immaginare e rimuovere possibili ostacoli,Insomma, arrivare “pronti” al momento fatidico. Dietro tutto questo c’era l’accettazione dei ritmi naturali, le stagioni, il caldo, il freddo, la neve, il vento, la siccità.C’era la consapevolezza che una parte del lavoro e della vita non era controllabile e che conveniva adeguarsi e agire di conseguenza.

Si accettavano, con dolore ma senza ribellione, la calamità, la disgrazia, la sfortuna.

Anche se si poteva sempre e largamente ricorrere alle preghiere, alle piccole magie, “all’invisibile quotidiano”.

Pensiamo , per usare un esempio comune, alla preparazione del corredo da sposa.

Il momento era lontano, si trattava di speranza e non di certezza ( non erano infrequenti le zitelle che rimanevano tutta la vita nella casa dei genitori),la fanciulla imparava a cucire e ricamare sotto la supervisione delle donne di famiglia, si tesseva, si sfilavano orli, si impiegavano lunghe sere a mettere un punto dietro l’altro.Si mettevano da parte piccole economieper acquistare certi tessuti.Si ricevevano in dono alcuni pezzi pregiati in occasione di ricorrenze particolari… Ci volevano, insomma,molti anni a preparare un bel corredo.

Il quale, una volta compiuto, era la somma di tutto questo e ne conservava le tracce, in sé : ogni oggetto manteneva la memoria di chi, di quando, di quanto, di come era stato prodotto o ricevuto in dono. E, naturalmente, conteneva soprattutto il progetto o , meglio. il sognodi giorni futuri in cui si sarebbero messe sul letto quelle lenzuola, si sarebbero festeggiate le tavole di festa con quelle tovaglie.

Tutto questo rappresenta una forma di “trainig” mentale, probabilmente molto sano, oggispazzato via dalla comodità di comperare tutto al momento effettivo dell’uso, nei negozi specializzati, nei modelli e colori alla moda.Abbiamo un po’ perduto il senso della preparazione, dell’attesa, dell’accumulo pazientedi risorse che aggiungonovalore alla realizzazione di un desiderio..

Nei bambini questo è particolarmente evidente.

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