I bambini erano utili per moltissimi lavori: 

Pistar al quadar in t’la casen’na, andar co’l vach,  andar a p’r aqua, p’lar j strupei  e….tajar i fij p’r al bali ‘d paja quand a ghè la machina,

 in pratica per tutti i lavori di manovalanza purché non fossero eccessivamente faticosi. Questo era il solo criterio discriminante; il tempo che rimaneva loro per il gioco e la scuola era abbastanza poco.  

Il principale incarico dei ragazzi era portare al pascolo le bestie. Uscivano la mattina presto e tornavano a pranzo, per poi uscire di nuovo, fino a sera.  Oppure, se il pascolo era lontano, portavano con sé il pranzo e tornavano solo alla  fine del pomeriggio. Avevano il compito di mantenere gli animali a pascolare dentro i terreni della famiglia, far sì che mangiassero a sufficienza, le erbe giuste,  e impedire che facessero danni nelle proprietà altrui. Dovevano inoltre riportare a casa tutti i capi senza perderne nessuno e senza che “si gonfiassero” o che rotolassero giù da una riva .  Una volta arrivati a  casa i bambini dovevano ancora abbeverare  le bestie e, se non lo faceva un adulto, erano capaci di governarle, preparando la lettiera, e  di pulire la stalla. Queste semplici attività implicavano tuttavia un ventaglio di competenze tutt’altro che banale. 

Occorreva conoscere i confini delle proprietà, i diversi tipi di erba e il suo grado di maturazione vegetativa, le misure di cibo e di acqua adatte al benessere degli animali; era indispensabile conoscere  le caratteristiche e i rischi dell’ambiente e degli attrezzi, i comportamenti giusti di fronte agli animali, anche selvatici, sapere che cosa fare  rispetto alle  variazioni meteorologiche, come rapportarsi con le  persone che si incontravano. 

In casa i bambini erano utili per fare cento piccoli servizi: andare per acqua, andare a prendere le uova nel pollaio o portare da mangiare alle galline, portare il beverone alle mucche, portare la legna in casa, fare commissioni presso i vicini. 

Le bambine imparavano prestissimo a pulire la casa, a governare le bestie e cucinare. Se erano troppo piccole per arrivare a lavare i piatti o impastare la sfoglia, poco male… salivano su uno sgabello. Una bambina sui dieci anni era la migliore delle bambinaie per fratelli e cuginetti neonati, dei quali si occupava per intere giornate, arrivando fino al lavaggio dei loro pannolini, buona palestra per i bucati futuri. 

I maschietti delle famiglie meno abbienti, verso gli otto, nove anni venivano mandati “par garzón” presso una famiglia benestante; la scuola non era un problema, perché pochi la frequentavano oltre la terza elementare.  Ci si accordava con una famiglia di un paese vicino, ma “vicino” era un concetto molto relativo per chi si poteva spostare solo a piedi ed, in genere, significava tornare a casa solo la domenica o anche soltanto una volta al mese.  Carobbio  o Bosco potevano essere mete possibili, perché lì c’erano famiglie abbastanza facoltose da poter mantenere una bocca in più, in cambio di un po’ di lavoro.  

Le ragazze, dopo i tredici anni, andavano “par serva”, a casa dei signori, in città, insieme ad una sorella più grande o comunque una parente.   A volte persino a Milano, a Genova, a Torino.   Equivaleva a un master: acquistavano belle maniere, imparavano a vestirsi e a parlare bene l’italiano, quando tornavano al paese tiravano fuori dalla valigia  calze di seta e sandali coi tacchi,  usavano con disinvoltura  il treno, gli autobus,  e godevano anche  un po’ di “bundànsa”. Andavano al cinema  e fumavano persino, a volte, qualche sigaretta Macedonia o Serraglio, di nascosto dalle madri.  Quando d’estate andavano a mietere e a fare il fieno, si coprivano le braccia per non abbronzarsi, per non guastare il candore della pelle. 

E alla fine sposavano uno di città, che non facesse loro lavorare la terra. Tornavano d’estate, ad aiutare la famiglia nei campi, poi, quando nessuno più lavorava i campi, cominciarono a portare i figli dai nonni per le vacanze. E poi furono loro a portare i figli dei figli.

C’erano anche lavori stagionali a pagamento, adatti alle donne e ai ragazzi. Generalmente si trattava di formare squadre che, per un periodo di qualche settimana, andavano a raccogliere  nocciole nei pressi di Berceto o castagne, verso Sivizzo. Si diceva “andar par coidóra” ( letteralmente: per (rac)coglitóra ) .

[ R ] La Caterina, a quattordici anni, andò par coidóra a Sivizzo. ( cioè a Sfìss) 

Un benestante del paese, proprietario di grandi estensioni di castagneto,  aveva messo insieme una squadra di ragazze per “la campagna delle castagne”, come diremmo oggi. Dovevano raccogliere, seccare, sbucciare e il lavoro durava un mese . In cambio ricevevano vitto, alloggio ed un compenso. C’era poi il clima  di animazione di un gruppo di ragazze adolescenti che si trovavano per la prima volta a lavorare da sole, fuori casa, mangiando e ridendo a crepapelle.   In capo a un mese la Caterina era cresciuta di parecchi chili (risultato di una dieta a base di castagne) e tornò a casa con il suo stipendio:  lo stipendio era di ….quattro sacchi di castagne secche. Fece il suo ingresso in paese, tenendo per la cavezza  l’asino che il padrone le aveva dato in prestito, per trasportarle. Con quelle castagne, la famiglia passò un ottimo inverno: una parte fu trasformata in farina per fare castagnaccio, le frittelle e la pasta,  un’altra parte rimase intera nei sacchi, per essere mangiata cruda, “come passatempo” o lessata nel latte, per cena e per colazione. 

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