LE FESTE COMANDATE

Erano feste religiose, legate alla ricorrenza di un santo.  

Alcune di queste feste portano ancora abbastanza leggibile, la traccia della festa pagana che ci stava sotto. C’è spesso, nella nostra cultura,  un  rito legato alle stagioni, al raccolto, ai ritmi della terra, che è stato sostituito da una festa cristiana. La gente lo avrebbe festeggiato comunque, quindi la religione cattolica lo ha, per così dire “coperto”, con un santo. 

Tanto per fare un esempio, per San Giovanni c’era in molti posti, e in parte si conserva anche a Parma, la tradizione  della rugiada benedetta, della notte magica  in cui si accendono dei fuochi all’aperto, si raccolgono le erbe medicinali, in cui si va a mangiare fuori, nelle campagne, in compagnia… 

Deriva, quasi senza variazioni, da un’antichissima usanza celtica che festeggiava la rinascita della terra dopo l’inverno, il  ritorno del raccolto, cioè del cibo.  Corrispondeva all’incirca al solstizio d’estate (21 giugno) e,in quella notte, si accendevano fuochi sulle colline, si celebravano riti di fertilità nei campi, si raccoglieva la rugiada che era considerata magica, si raccoglievano le erbe medicinali…

Le madonne delle Maestà hanno sostituito le divinità delle strade, che avevano i loro tempietti e simulacri agli incroci e al bivio delle strade. 

V’gilia d’ Nadal = C’era il digiuno e l’attesa della festa . Si faceva una cena di vigilia, cioè di magro, ma di magro davvero! Insalata di patate lesse e baccalà bollito. A volte con una barbabietola rossa.    Le donne facevano gli anolini senza neppure poter assaggiare il ripieno, che era di carne. La vigilia era considerata nel suo significato originario di purificazione e penitenza. Nella notte della Vigilia si potevano insegnare “le segnature”; si poteva cioè trasmettere la formula per segnare malattie e traumi. Al di fuori di questa notte non era consentito, pena la perdita dell’efficacia, per sempre. 

Natale = Niente albero di Natale e  niente regali. Il presepe si faceva in chiesa. Qualche volta si portava a casa un piccolo ginepro, che si metteva in piedi in un angolo della cucina. Ai suoi pungentissimi rami si appendevano noci e caramelle avvolte in cartine colorate, qualche volta ci potevano essere un mandarino o dei fichi secchi. Tipico regalo natalizio era il Partügal, l’arancio. 

Dopo averlo gustato e magari diviso coi fratelli, la buccia si metteva a seccare sulla stufa, così  la giornata di festa si legava, nel ricordo, al profumo di arancio, simbolo di ricchezza e di lussi esotici. La mattina si andava a messa ( messa cantata ) e si affrettava il ritorno per la parte più pagana della festa.  Il pranzo, dopo la vigilia, doveva essere ricco e dunque si faceva un gran pentolone di brodo, con gallina o cappone, un pezzo di  manzo con l’osso  e un bel rotolo di ripieno giallo, con pane, formaggio e prezzemolo. Questo ripieno aveva la funzione di riempire piatto, occhi e pancia, in luogo di un pezzo di carne.  A tavola girava il gran piatto ovale delle feste, e ci si doveva servire prendendo un pezzetto di ogni varietà, senza stare a scegliere troppo; era una questione di quantità scrupolosamente calcolate, non di gusti.  Le donne cucinavano, servivano e poi mangiavano in cucina, non a tavola. 

Befana = 

Carnevale =

Pasqua  = dentro bei vasi di terracotta si faceva germogliare il frumento, al buio, perché le piantine crescessero bianche, e con questi vasi di erba bianca, avvolti in carte veline colorate e infiocchettati,  si decorava il Santo Sepolcro. 

la Madonna=  ogni paese aveva la sua domenica dedicata alla Madonna. Queste feste erano per lo più in luglio, probabilmente per la maggiore disponibilità di cibo ( e soprattutto di uova, farina e pollame ) da mettere in tavola, dopo il raccolto. La festa era fatta delle stesse cose di sempre: la funzione in chiesa, il pranzo con qualche invitato proveniente da altri paesi, un po’ di ballo il pomeriggio. Per la Madonna o per Santa Maria si facevano le grandi torte, nelle teglie “del quaranta” (era il diametro, inciso sul fondo), secondo le ricette segrete, custodite fino alla tomba  (e talvolta anche  oltre ) da rezdore che ne facevano motivo di orgoglio personale.  Ognuna era riconosciuta specialista in una certa torta o nell’altra e la sagra ne rinnovava  l’annuale sfida. .  

Santa Maria (15 agosto) . Si diceva “ par Santa Maria”, e si sanciva una delle date miliari dell’anno. Si spianava un vestito per Santa Maria, si faceva un invito ufficiale ad una persona importante, si comperava un oggetto per la casa, con il pretesto di utilizzarlo in quell’occasione.

E’ da sottolineare che era tipico di questa cultura non avere alcun rapporto di consumo con gli oggetti nuovi, se non vi era un pretesto ufficiale, una giustificazione apparente.  Non si poteva inaugurare per la prima volta  un abito, un paio di scarpe, un servizio di piatti, un fazzoletto da testa o da collo, una caffettiera o un lume a petrolio, se non c’era di mezzo  il giorno speciale,  l’occasione pubblica che ne sancisse la celebrazione. 

Mangiare per la prima volta un frutto nel corso dell’anno era un piccolo avvenimento che andava celebrato, esprimendo tra sè, in silenzio, un desiderio che si sarebbe avverato.

Mettere una camicia nuova in un giorno qualsiasi sarebbe stato un gesto di spregio, di mancanza di rispetto; ma, soprattutto, avrebbe privato questa “prima volta” di un valore aggiunto, di un significato riconosciuto da tutti. 

Questi piccoli riti avevano una  funzione di arricchimento: aumentavano sia  il valore dell’oggetto posseduto che la visibilità della persona che lo esibiva. 

Oggi questi riti, sebbene siano ancora  presentissimi, si sono spostati su piani molto più costosi. Il valore dell’”Arricchimento”, tuttavia,  non è cresciuto affatto, perché il suo significato non era assolutamente legato al valore economico. 

San Nicola ( 10 settembre) I panini. Il prato sacro. La benedizione dei bambini. 

San Matè (23 settembre) . L’osteria sui monti, il pranzo e il ballo sui prati. “I ‘ han fat parlar al fazz”

Altri santi patroni minori ( ad Agna c’era anche  S. Luigi, …)

I Morti e i Santi  (usanza di “al mez turdèl = il giorno dei Morti si lavorava nei campi, ma le donne in quel giorno stavano a casa e preparavano i tortelli di patate. All’ora di pranzo arrivavano gli uomini, ovviamente affamati,  e ricevevano soprannomi e porzioni diverse, secondo l’ordine di arrivo. Il primo che arrivava  veniva accolto dalle donne al grido di   “Evviva al poeu gulùz“ . Il secondo:  “Evviva al mèz turdèll”, con porzione abbondante, al terzo toccavano gli avanzi (per modo di dire…) e il grido “ evviva  al leccapiatt!”) . 

Poiché nessuno aveva l’orologio e i luoghi di lavoro erano distanti, l’ordine di arrivo era davvero casuale. 

 

  

LE FESTE DA BALLO

Di sagra si ballava. E si ballava sia di pomeriggio che di sera. Tra i ragazzi, alcuni più intraprendenti e con qualche soldo in tasca, formavano una specie di comitato organizzatore (si diceva che il Tale o il Talaltro “ i fàvin balàr”),  si organizzavano ( e si autotassavano) per andare a cercare i suonatori.  Ce n’erano, nei paesi intorno, che suonavano la fisarmonica, il violino, persino il mandolino. Si poteva ballare anche con un solo suonatore: se era di fisarmonica era meglio, ma anche il violino si prestava abbastanza bene. Il suonatore si metteva in un angolo della sala, seduto su una sedia,  e suonava, semplicemente.   L’altro compito degli organizzatori era quello di far portare nella festa una cassa di vino, verso la mezzanotte, con bicchieri per tutti.  All’inizio si ballava nella vecchia Sala ‘d Sabadèn, giù in fondo al paese.  Era una stanza grande, al primo piano, un rettangolo lungo e stretto, che veniva liberato dai mobili e circondato da una fila continua di seggiole.  Più tardi arrivarono i Festivalari, degli impresari che arrivavano col camion, scaricavano centinaia di assi e pannelli di legno e in mezza giornata montavano una balera coperta da un tendone,  completa di sedili,  biglietteria e insegna dipinta sopra la porta.  Era  “a’ Fastivàl”, era comodo e grande e con un po’ di borotalco sparso sul pavimento di legno si piroettava  benissimo. Aveva due limiti:  era legato alla bella stagione e richiedeva uno spazio perfettamente piano per essere piazzato. Col freddo e la pioggia non si poteva usare. Il posto per montarlo era esattamente quello dove adesso sorge il circolo, nel Casamént, sopra il canale, ma qualche volta fu montato anche in fondo al paese, nell’aia di Miclèn. In un paese  tutto in discesa come Agna, posti adatti ce n’erano pochi. 

Le ragazze del paese avevano i loro parenti attorno,  quelle che venivano da fuori erano un po’ più disinvolte. 

I ragazzi e le ragazze andavano a ballare in gruppo, quando c’erano le sagre nei paesi vicini. 

Finché le automobili non furono abbastanza diffuse, vale a dire fino a metà degli anni sessanta, si andava a piedi. Si mettevano gli scarponi per fare la strada fino al paese, poi, una volta arrivati, si nascondevano in un cespuglio, si infilavano le scarpe da ballo e …via!

Il ballo funzionava così:

Le madri, le nonne, le zie, si sedevano tutt’intorno alla sala e le ragazze sedevano  composte accanto a loro oppure a gruppetti di amiche, insieme.  Cominciava la musica. I ragazzi giravano intorno, guardavano. Quelli un po’ più disinvolti venivano a chiedere di ballare, con un sorriso, quelli più timidi facevano un segno col dito o con la testa, da lontano. Se uno non ti piaceva potevi sempre fingere di non aver visto. Se ti piaceva, era più che sufficiente per alzarsi e raggiungerlo.  Durante il ballo, siccome si trattava di tanghi e valzer e mazurche, le coppie si spostavano piroettando per tutta la sala e le accompagnatrici delle ragazze controllavano che il comportamento della coppia fosse corretto. Se la coppia si rendeva poco visibile o si stringeva un po’ troppo,  le accompagnatrici facevano valere il loro ruolo. Era assolutamente vietato per una ragazza, uscire dalla festa da sola con un uomo. Farlo equivaleva  a subire per lungo tempo rampogne e sospetti. Forse botte. Qualche volta un genitore inflessibile arrivava nella festa, chiamava la figlia davanti a tutti e le intimava un secco “ A cà!” . Era il massimo della vergogna. All’inizio si diceva che  la ragazza si era comportata male, poi, pian piano, si cominciò a pensare che, dei due, quello che si era comportato male era  il  padre. E  anche questo era un segno dei tempi che cambiavano.