MALATTIE

Ascessi : maturavano velocemente con acqua calda e sale ( ed è verissimo) oppure con applicazioni di ittiolo, una pomata unta e nerastra, tuttora in vendita e tuttora efficace, anche se poco amata, proprio perché poco maneggevole.

Per il mal di orecchi si faceva colare qualche goccia di olio di oliva caldo dentro il condotto uditivo.

Per la tosse si prendeva una carta da zucchero, che era pesante e blu scuro, assolutamente scomparsa! (di lei è rimasto solo il nome di un colore) . La si riempiva di buchini  con un ago e la si ungeva  di sugna ( ad soéunza), poi si riscaldava tenendola vicino al fuoco e si metteva sul petto, a contatto della pelle, subito coperta con una maglia di lana sottile. Si teneva tutta la notte. Scricchiolava un po’, ma, chissà perché. faceva bene.

 La pertosse, invece, detta “la tussa catìva”, si curava col …cambiamento d’aria. I bambini che ne erano affetti venivano portati sul monte Caio, a San Matteo, perché mezza giornata a quell’altezza poteva migliorare i sintomi. Bambinette di sei anni venivano mandate da sole, magari con un’amichetta coetanea e un fagotto di cibarie, poi tornavano tranquillamente la sera. Questo testimonia la grande confidenza di adulti e bambini con l’ambiente in cui si viveva.

E per il mal di  denti? La carie era molto diffusa, anche perché gli spazzolini da denti, che  già c’erano, non erano usati regolarmente),  il dentista era il medico generico e, se ci si andava, era per togliere, non per curare.  La maggior parte della gente  aveva già perduto molti denti prima dei quarant’anni. Anche questo contribuiva all’invecchiamento precoce che osserviamo nelle fotografie, anzi, forse spiega tutti quei sorrisi a bocca chiusa che vediamo nelle fotografie.  C’erano dei “cascé”, che il farmacista preparava chiudendo la polverina nelle ostie. Erano grossi più o meno come un grosso fagiolo, e si inghiottivano interi, con un po’ d’acqua. Oppure c’era la fialetta del Dottor Knapp. Era una fialetta minuscola, come un campioncino di profumo, e conteneva un liquido marrone scuro, dall’odore fortissimo, Diciamo … una mistura di tintura di iodio e essenza di chiodo di garofano? Si inzuppava di questo liquido un batuffolino di ovatta e si introduceva nel dente cariato. Il sapore era ancora  peggio dell’odore, addormentava anche la lingua, ma “addormentava il male”, almeno per un po’. Credo che esista ancora, questo prodotto.

Poteva anche capitare che un dente si spezzasse e la scheggia rimasta in bocca fosse tagliente e procurasse delle ferite alla lingua o alle mucose.  Allora si infilava sul dito indice un normale ditale da cucito, di metallo, il cui bordo era (ed è tuttora) sempre zigrinato, e si usava come una lima, per arrotondare la scheggia tagliente.  Funzionale, efficace, semplicemente geniale.

Per la stitichezza : si tenevano d’occhio queste faccende soprattutto nei bambini: all’occorrenza si faceva un clistere di sapone di Marsiglia e camomilla. Oppure, senza tante mediazioni, un pezzetto di sapone da bucato foggiato a mo’ di supposta e usato come tale. 

Diciamo che, dei due, il clistere era un po’ più “dolce”.

 Le slogature si riducevano manualmente; e anche in questo caso c’era chi era particolarmente abile e a queste persone si ricorreva.

Se c’era bisogno di una fasciatura rigida per immobilizzare un arto, si preparavano fasce da neonato leggere, bagnate nel chiaro d’uovo leggermente sbattuto e si faceva la fasciatura. Una volta asciugato, questo bendaggio era rigido, quasi come un gesso: ad esempio, un ginocchio fasciato in questo modo rimane teso e impossibile da piegare.  Il rimedio principe era “far segnare la storta” . Si segnava sotto un filo di acqua corrente, usando un coccio per tracciare dei segni di croce e nel frattempo si recitava una formula segreta.

Per le scottature solari si sbatteva un chiaro d’uovo con  due cucchiai di olio d’oliva ( Oli bon) e l’emulsione si spalmava sulla pelle arrossata. Dà effettivamente un sollievo immediato e decongestiona la pelle.

Le scottature da fuoco si “segnavano”, usando un tizzone spento. Oppure si coprivano con fette di patata cruda.

Epilessia : si chiamava “mal caduto” . Non c’erano cure, naturalmente..

Erisìpela : si segnava con una moneta d’argento.

Fuoco di Sant’Antonio : anche questo non aveva altro rimedio che la segnatura, che spesso dava ottimi risultati.

Vermi dei bambini : Si segnavano anche questi.

Contro i dolori reumatici e muscolari ci voleva ‘Na tintürà, cioè la tintura di jodio usata  come revulsivo  Si stendeva con una piuma di gallina intinta nella bottiglia, perché lo sfregamento più forte avrebbe potuto lesionare la pelle.

Mal di gola : gargarismi con acqua e aceto.

Per i mali incurabili c’era un solo nome, e valeva per tutti: “un mal catìv”.

 “Un càncar” era invece un accidente generico da spedire ad un nemico, più che una malattia vera e propria. Altrettanto  dicasi per “un culéro”, che con la malattia del colera non ha assolutamente niente da spartire.

Gengiviti

Nei casi di irritazioni e di infiammazione delle gengive e della bocca in genere, soprattutto nel mal di gola occorre fare sciacqui, lavaggi, gargarismi con un infuso così preparato: 4 g. di salvia in 100 ml. di acqua.

La salvia può essere considerata come uno dei più antichi “dentifrici” usati dall’uomo: le foglie venivano strofinate su denti e gengive, spesso insieme ad un poco di sale finemente polverizzato.

Malattie delle bestie

 La peggior disgrazia che potesse capitare ad una vacca  era di fare una scorpacciata di trifoglio o di erba medica giovane. Allora, il cibo ingerito poteva sviluppare schiuma, ostruire l’esofago  e impedire all’animale la regolare eruttazione del gas ruminale, (prodotto normalmente nella misura di qualche metro cubo al giorno).  In poco tempo l’addome della vacca “si gonfiava”, letteralmente, e il fenomeno era evidentissimo. Sarebbe morta rapidamente se non si fosse intervenuti per far riprendere  l’uscita del gas dalla bocca. C’erano diversi possibili rimedi da tentare.  Si metteva, innanzitutto,  l’animale con le zampe anteriori su un rialzo, per fare in modo che la valvola dell’esofago si trovasse al di sopra del livello del liquido.  Se non si otteneva nessun risultato si tentava facendo ingerire alla bestia  litri e litri di latte, per abbassare la schiuma. L’estremo rimedio era “il trequarti”, un pugnale con il fodero aperto in  punta. Si piantava, fodero e pugnale insieme,  in un punto preciso, nella fossa del fianco, poi si sfilava, lasciando inserito il fodero, che faceva così da valvola di sfiato. Una vacca “forata” generalmente sopravviveva, ma la sua capacità digestiva era ridotta, e così pure la sua produzione di latte.  Il suo valore crollava. 

 L’altro grande nemico delle vacche era la mastite. Per curarla si facevano praticare dei massaggi da una donna che avesse “la mano”, cioè che, alla nascita, avesse ricevuto della neve nel palmo della mano. Ho conosciuto una di queste donne e devo dire che effettivamente le sue mani sono bollenti in qualunque stagione dell’anno.