La montagna di Corniglio vedeva, come base dell’alimentazione, castagne e patate, che sono prodotti locali e rappresentavano l’equivalente della polenta di granoturco in pianura, cioè il cibo di ogni giorno,  cucinato in tutte le varianti possibili. 

Il frumento era riservato al pane e alla sfoglia per la pasta. 

IL CIBO DI TUTTI I GIORNI 

Il pane.   Non c’era cibo che si potesse mangiare senza pane. Mangiare senza pane era uno spreco da gente “senza rispetto della roba” . Latte col pane, minestra col pane, pasta asciutta col pane, patate col pane…. Anche la frutta, (una pera, una pesca, un s’cianclén d’üva)  si mangiava col pane, e meglio ancora quella secca, noci e nocciole e fichi secchi…  Andava tutto masticato a lungo, per gustare bene il sapore di quel po’ di companatico, che bisognava far durare il più a lungo possibile.  Spesso per indicare il valore di un cibo saporito si diceva ” Ah, con questo ci si mangia una micca di pane!”  Era il caso, per esempio,  di due quadretti di cioccolato, per esempio, capitati chissà come da quelle parti. Ma anche di una bella cipolla rossa. Si diceva “fa companatico” . Companatico è una parola “d’epoca”.  Il pane aveva una sua sacralità, ovviamente. Non si poteva mettere in tavola capovolto, non si poteva buttare via, e mai, in nessun caso,  si doveva sprecare. 

Si faceva una volta la settimana  e durava per tutto il tempo. Lo si tagliava appoggiando la micca al petto e tagliando verso di sè,  in fette alte un dito, con la crosta sottile e la mollica compatta, scura perché setacciata grossa. Il pane troppo bianco avrebbe voluto dire  che una troppo grande quota di crusca era andata agli animali. Tante micche di meno…un lusso che non ci si poteva permettere.

Colazione 

Si mangiava in una grossa scodella, pescando col cucchiaio da minestra, al lat co a’ café d’orz, oppure  la süpa co a’ bütéer. 

Molto pane e un poco di liquido. 

Gli uomini, che uscivano per affrontare tre o quattro ore di lavoro faticoso, spesso facevano colazione con la minestra rimasta la sera prima. A volte si faceva appositamente un po’ di minestra in più, per il mattino dopo. Era particolarmente gustosa, riscaldata in questo modo, la pasta di castagne. 

[ C ] “Quando facevo la pasta da gràs, alla sera, ne facevo un po’ di più. Erano sempre tagliatelle fatte in casa, e ne  mettevo da parte una scodella con poco brodo. La mattina dopo la pasta aveva assorbito tutto il liquido e la facevo friggere, con un pezzo di burro, finché faceva una bella crosticina croccante, da tutt’e due le parti. Mio papà la mangiava molto volentieri. 

Primi piatti

Poteva esserci una pastasciutta a mezzogiorno, ma la sera era sempre una minestra di verdura. Meglio se era “pasta da gràs”, cioè con la pestata di lardo e verdure fresche e una puntina di conserva. Doveva “fare gli occhi nel piatto”, allora sì che c’era gusto a “far la séza”, la siepe, con le fette di pane intorno alla fondina. Si mangiavano una alla volta, un po’ col cucchiaio un po’ intingendole con le dita. Raccontavano  un aneddoto su un apprendista che metteva alla prova (lui!) il suo padrone fin dal primo giorno di lavoro:  quando la sera gli presentavano la minestra lui diceva ” Padrone, la minestra scotta”. Se il padrone rispondeva “E tu soffia”, il nostro faceva fagotto.  Finalmente una sera un padrone rispose ” Scotta ? Allora mettici del pane, vedrai che si raffredda”.  E quello era finalmente il padrone che andava bene. 

Solo le famiglie numerose, in cui c’erano diversi uomini,  compravano la pasta, perché non ci sarebbe stato il tempo, e forse nemmeno la farina, per  fare tutta quella sfoglia, tanto spesso. 

 Pane, pasta o polenta erano la quota principale dell’alimentazione quotidiana. Poi venivano frutta e verdura e solo in ultima posizione le proteine della carne e del latte. Il grasso era quotidianamente presente, ma con misura.  Il pesce era quasi sconosciuto.  Potrebbe sembrare un buon esempio di dieta bilanciata, ma va detto che spesso, per qualcuno, la quota proteica era davvero molto bassa e che il lavoro faticoso ed il freddo avrebbero richiesto qualche caloria in più.  Nessuno era in sovrappeso, se non qualche donna anziana, ormai sedentaria. 

I primi piatti di ogni  giorno erano: la farinà dastéza,( polenta di farina bianca stesa sul tagliere e mangiata direttamente da lì, tutti insieme, senza piatti.  la pannà, la pasta ad castagn, i paralèt, al ris e lat, la pasta da gras (con la pistà ad gras). la pasta da màgar (sempre con la “fujà” tirata con la cannella e tagliata con la curtlen’na) e, naturalmente, la pulenta. 

La pastasütta voleva dire tagliatelle, condite con un sugo di soffritto e conserva.  Il formaggio grattugiato era quello fatto in casa, lasciato seccare perché diventasse secco e, a grattugiarlo, rendesse di più. Il sapore di questa leggera polvere, non facciamoci illusioni,  era davvero molto diverso da quello del parmigiano. Ma faceva tutta la differenza. 

Per le feste comparivano: i zgranfignón, i turdei, i anulén, la pasta raza.   Noi oggi consideriamo una prelibatezza la pasta fatta in casa: allora era considerata un piatto da sagra la pasta “compra”.

 La polenta si faceva sempre abbondante, apposta  per avere l’occasione di preparare quella avanzata  in modi diversi. Era buona arrostita vicino al fuoco, con sistemi vari ( griglie, treppiedi ecc…) e si mangiava col formaggio tenero, col latte freddo, col salume, con le salacche.  Ma era meglio ancora fritta, accompagnata da uova fritte col tuorlo ancora fluido, in cui queste fette di polenta croccante si intingevano  con le dita .

Il secondo piatto era sempre molto frugale, perché ci si riempiva la pancia con il primo, meno costoso. Dopo uno (o meglio due ) piatti di minestra poteva esserci una frittata, o un pezzo di formaggio, o due fette di pancetta o di coppa.  Oppure  “dü ov cott a balott co’ al sal, e ‘na patacca in insalatta. ..”

Modi di cuocere le uova: cott a balott, brinà ( à la coque),  fritt con la pulenta, sbatü col sücar (al zambajón) .

I latticini erano prodotti in casa, a partire dal secchio di latte, passando per il paiolo di rame e gli stampi di legno:   Barzòch,  furmaj,  furmajén ‘d San Zvan –  ricotta – furmaj b’ghì – pànna – bùtér 

Carne : oltre agli animali da cortile si mangiavano anche carni che adesso potremmo sforzarci di definire “alternative” (gatti, scoiattoli, porcospini,  tassi, uccelli selvatici ecc) .  Si cuocevano in pochi, semplici modi: a lâss, aròst, in ümid, a la cassadùra. 

Pesce :  Poiché non era un prodotto dell’economia locale, ma bisognava comperarlo, si mangiava di rado e per lo più soltanto nelle vigilie,  in cui era d’obbligo mangiare di magro. Naturalmente  si comperava  solo quello meno costoso: al Bacalà, al Ton. Il baccalà si faceva fritto oppure lessato, poi “sfogliato” tra le dita  e condito in insalata con patate e aglio. Anche le proverbiali salacche erano presenti sulle tavole. Si diceva “èssar màgar c’me ‘na saracca”.

Verdure = patàch, ( non si dice Pom da téra, alla francese, come dicono a Parma) fasoéu, sigulòt, sigùli, siguli tusch, ( rosse e dolci, buone crude, col pane) porr, aj, insalatta, arbâtt, raviot, rava ad bieda, (biedrava),  burgnerb, carott, süclén, fiur ad sücca, tumacch, sènar, basalìch, 

Le patate si facevano fritte solo d’estate. Si mangiavano per lo più bollite, in insalata con prezzemolo e aglio. “Bollito” si dice “cott a balòtt”, sia che si tratti di patate, di castagne o di uova. Si dice  “cott a balòtt” di tutto quello che doveva essere sbucciato dopo cotto. 

Bevande 

L’acqua era la bevanda naturale, di sempre.  C’erano innumerevoli sorgenti, intorno al paese e sulla montagna, ognuna con il suo nome, ognuna con il suo sapore.  La funtan’na dal Mèral, ad la Curgnoéula, ad la Burèlla, in t’al Funtan, in t’al Fardan, i Aqualén,  Si poteva  riconoscere la provenienza dell’acqua dal sapore. Quando si dice fontana, se siamo in mezzo ai boschi, si parla di una  piccola conca, scavata nel terreno, davanti a un argine di terra o una pietra coperta di muschio. Per bere bisognava togliere le foglie cadute nell’acqua, e, siccome non c’erano bicchieri, ci si inginocchiava e si raccoglieva l’acqua nel cavo delle mani, o si immergevano le labbra dentro lo specchio d’acqua. 

Prima di bere i ragazzi recitavano:  “Acqua curenta, a gh’ beva i sarpènt, a gh’ beva Dio, ci posso bere anch’io?”   Bisogna ammettere che questo Dio che beve alle sorgenti, magari la mattina presto, quando non c’è in giro nessuno, è grandioso e consolante.

 Il caffè era fatto con orzo, cicoria, ghiande e ogni tipo di seme che potesse essere torrefatto. Il vero caffè si chiamava “Caffè buono”. Si macinava ogni volta. Fantastico. Perché il profumo era più intenso.  E anche perché bisognava mettersi il macinino tra le ginocchia e girare, girare e poi tirare il cassettino pieno di polvere profumata, e tutto questo era un rito che faceva parte del piacere del caffè.  

L’aceto si faceva in casa, naturalmente, ed i nostri vini a bassa gradazione alcolica si prestavano volentieri a diventare aceto. Si teneva in casa un fiaschetto con “la madre” dell’aceto, e si aggiungeva un po’ di vino, ogni tanto, per mantenere il livello. 

Non si usavano, se non a fini medicinali, tisane , tè ecc…

GUARDA COME SI FA 

L’ACETO

Preparazione:

Si usava un recipiente di terracotta non smaltata  (capacità almeno 4 litri) o un fiaschetto.  La prima volta che si faceva  l’aceto, si metteva  un litro di vino (per un buon risultato la gradazione del vino dev’essere intorno ai 10 gradi, non di più) e si aggiungeva un bicchiere di buon aceto di vino. Si chiudeva il recipiente con un tappo di sughero, ma  ogni giorno si lasciava aperto per una mezz’ora, con un cappellotto di carta.  Dopo due settimane si formava la ‘madre’ dell’aceto, una masserella dalla consistenza vischiosa, e l’aceto era pronto per l’uso.  A questo punto si aggiungeva  via via qualche goccio di vino avanzato, qualche fondo di bottiglia per mantenere il livello costante.   

Se qualcuno volesse provarci 

per facilitare la fermentazione, si possono aggiungere al vino pochi trucioli di legno di faggio o di abete, oppure la mollica di un panino (in quest’ultimo caso si dovrà poi filtrare l’aceto). Si consiglia inoltre di levare l’aceto una volta l’anno, per ‘lavare’ la madre e (se ci sono) i trucioli. Si lava bene il recipiente, lo si asciuga e infine si rimette dentro l’aceto passato attraverso un telo pulito, i trucioli e la ‘madre’ lavata nel vino. 

La “madre” è una colonia di batteri,  detti  Microderma Aceti. Questi batteri agiscono sull’alcol presente con un’attività chimica, detta appunto Fermentazione acetica,  fino a trasformarlo in acido acetico.
 

Frutta 

La campagna forniva  molta frutta, fresca e da seccare = i figh, al nuz, al nisoeuli, al brügn. i per (“voeut  un per sàc?”)  i “güson”, al corgn, i bargnoèu, i pér sarvlén.   Da questa parte della valle non ho mai visto né albicocchi né peschi . Il vocabolo Pèrsagh  esiste, albicocca no.   Per lo stesso motivo (la posizione “a bacìo”, cioè dove il sole batte poco), ad Agna non maturava l’uva,  se non eccezionalmente.  Chi voleva farsi il vino doveva comprare l’uva da quelli di altri paesi, esposti al sole, oppure nella Bassa.   

Si comperavano, solo  per le feste di Natale  i Partügaj e i mandarén, che  venivano regalati ai bambini come dono di Natale o della Befana.   

Dolci : erano pochi: al fritèlli ad castagn e la paton’na, la mela (il miele), le torte per le sagre. Le torte (“al chisoéuli”) erano un lusso, riservato alle feste, perché richiedevano ingredienti relativamente costosi, come burro, uova, zucchero, mandorle… C’erano però anche quelle semplici, che si infilavano nel forno dopo la cottura del pane, per accontentare i bambini, e si chiamavano “i chisulén”. 

GUARDA COME  SI FACEVA…

MANGIARE NEI CAMPI

Gli uomini mangiavano spesso nei campi più lontani, senza tornare a casa per il pranzo. Quindi si “prendevano su da mangiare”.  Oppure glielo portava una ragazza o un bambino di casa, all’ora giusta, magari ancora caldo.  

Nel primo caso il pranzo stava in un fazzolettone blu a caratteristici riquadri  bianchi e rossi, legato come un fagotto. Era la borsina da spesa dell’epoca : a’ fasulâtt da spesa. Dentro c’erano il pane e il companatico. Nient’altro che  un pezzo di formaggio, una cipolla, qualche fetta di salume. Si beveva acqua della sorgente più vicina, magari si riempiva il fiasco  strada facendo e si teneva in fresco sotto un cespuglio. Il tappo del fiasco poteva essere un ciuffo di foglie avvolto su se stesso e cacciato nel collo di vetro, giusto per evitare di trovare un insetto ( o una biscia) nell’acqua.  Il vino invece era riservato alle feste, oppure si beveva all’osteria.  Si apriva il fazzoletto sul prato o su un sasso, si tirava fuori di tasca il coltello a serramanico, quello a lama larga e curva (“ la pudàja”, da pudàr, potare), si tagliava una fetta di pane e via… Poi si passava da bere. Se si era in molti gli uomini usavano il riguardo di bere versandosi il liquido in gola, senza appoggiare le labbra al collo del fiasco; le donne no, perché era un gesto maschile, sguaiato, che “ non stava bene”. 

 A volte si poteva cucinare sul posto.  Si piantavano tre bastoni di legno verde (di forma adatta, con rami che reggessero la pentola)  nel terreno, si appendeva la pentola e si cuoceva la pasta o la polenta.  Si vedono a volte impianti del genere nei film che mostrano accampamenti di Pellerossa. Prima si faceva un po’ di soffritto con burro e cipolla, un cucchiaio di conserva di pomodoro e un goccio d’acqua, poi si cuoceva la pasta o la polenta e si condiva col sugo appena fatto e il formaggio grattugiato portato in un cartoccino, da casa.  

LA COEUNSA DAL NIMÁL

C’era  uno specialista, al maslén,  che in quel periodo dell’anno andava di casa in casa per uccidere il maiale e conciarne le carni. Lui dirigeva i lavori e le persone della casa lo aiutavano.   Il personaggio era rispettato e circondato di premure: dalla sua perizia dipendeva la riuscita dell’investimento. Ci si affaccendava a porgergli gli attrezzi, a eseguire i suoi comandi, a offrirgli la merenda  o il bicchiere. 

Le donne avevano fatto bollire un gran paiolo d’acqua. gli uomini avevano preparavano un traliccio di pali o una trave sotto il portico, a cui appendere il maiale  ucciso per macellarlo. 

Il sangue veniva raccolto per farne una torta ( “al mjass”, il migliaccio)  La carcassa veniva deposta su un fianco, sopra una tavola di legno  per essere pelata, si versava sul corpo l’acqua bollente e  si asportavano le setole, raschiando con un coltello a lama larga.

Infine si asportavano gli unghioli e la lingua  A questo punto il corpo del maiale veniva appeso per le zampe posteriori ad un  traliccio o ad una trave del portico e si apriva sul ventre, per asportarne i visceri. 

Gli intestini, svuotati, rovesciati,  lavati,  raschiati e messi in salamoia, sarebbero serviti per salsicce e salami, la vescica avrebbe fatto da …barattolo per lo strutto. (Se si volevano fare e cosiddette “investiture”, cioè il culatello  o altri salumi rivestiti,  per cui servissero più vesciche,  si comprava dal macellaio qualche vescica di bue). 

La coratella ( polmoni, cuore e fegato ) veniva passata direttamente alla Razdura, che ne faceva pietanze per il consumo immediato. Anche le zampe venivano consumate nei giorni successivi, lessate e accompagnate con la “salsa verda”. 

Una volta che la carcassa fosse stata eviscerata, veniva divisa, con la scure, in due mezzene,  che venivano appese in casa, in una stanza fredda,  per un giorno o due. 

Questo periodo era considerato molto delicato: se qualcosa fosse andato male, la carne avrebbe potuto diventare molliccia, appiccicosa, grigia. In questo caso non avrebbe “preso la concia” e sarebbe andata a male in pochi giorni.  (Era un difetto genetico a causare questo problema, ormai quasi eliminato dalla selezione). 

Il giorno successivo, o l’altro ancora, arrivava il maslén, che cominciava a sezionare la carcassa, dividendo le carni a seconda delle  diverse preparazioni. 

Innanzitutto si separava il grasso dalla carne.  Questi erano  i due grandi prodotti della macellazione, di pari dignità e importanza per l’economia della famiglia. 

Il lardo  ( al grass ) e la gola venivano sezionati, salati e conditi, prima di essere messi in fresco.  

Il grasso che circondava i muscoli e gli organi interni veniva messo in un calderone e  liquefatto  ( cioè…strutto, voce del verbo struggere, sciogliere … ) sul fuoco. Lo strutto ( al dulégh) veniva messo nella vescica o in altri recipienti e quando era  raffreddato,  andava direttamente in cantina, con due foglie di lauro imprigionate sopra, a renderne il profumo irresistibile. Sarebbe servito come grasso di frittura o di condimento. La sugna ( sonza) serviva persino ad ingrassare il cuoio delle scarpe o delle cinghie.  I suoi residui, cioè i ritagli rimasti dopo la colatura, venivano schiacciati con una morsa per ottenere i ciccioli (grasoéu).   La pancetta, infine, era messa da parte, per essere condita e legata con attenzione, perché una pancetta veramente buona sta felicemente alla pari con i  salumi più nobili e rinomati. 

Orecchie, frustoli di carne e polpine della testa venivano pressati in uno stampo di legno e spremuti a caldo, per farne cicciolata ( la suprassà)  Le cotiche  ( al cùdagh), messe da parte, potevano servire ad accompagnare i fagioli in umido, a insaporire una minestra, ma anche a …ingrassare il cuoio degli scarponi. 

La carne invece era il vero banco di prova per il valore del maslèn. 

I prosciutti potevano essere venduti freschi a un salumiere o a un macellaio, oppure tenuti per la famiglia; in questo caso seguivano il loro iter tradizionale di salatura e stagionatura. Le altre parti del corpo del maiale diventavano salumi di ogni genere. 

E allora c’erano …

…. la Spalla cruda, molto simile alla coppa  (ma, quando veniva bene, ancora più squisita) e  la Coppa, 

– i tre Grandiosi Grassi:  Pancetta, Gola e Lardo ( la Gola era leggermente più rosata, più delicata da mangiare cruda ), 

– e poi  Salsicce, Salami e Cotechini. 

La bravura del Maslén si esprimeva nella sapienza con cui salava le carni e dosava il pepe, nella “mano”  con cui legava la pancetta o componeva l’impasto per le salsicce e i salami. Qui c’era un altro punto critico della lavorazione: l’insaccatura. Si faceva con un imbuto apposito, a bocca larga, a volte con una macchinetta a manovella che spingesse l’impasto in maniera uniforme: l’essenziale era che non si creassero bolle d’aria all’interno di salami e salsicce. Il sapore sarebbe stato rovinato ed era un pericolo per la salute. ( il termine  “botulino” deriva da “botulus”, che vuol dire salsiccia. Non insisto oltre…)  . 

Il salame insaccato nell’ultimo tratto del  budello, che è più spesso e grasso, rimaneva più morbido e saporito. Si riconosceva perché era opaco e grossolano e soprattutto per la cucitura a punti lunghi che lo chiudeva, in basso.  Di solito lo si definisce “salame gentile”, capovolgendo volutamente il folgorante concetto originario . 

Qual era  concetto originario?  “Al salàm dal büz cülàr”.     Naturalmente. 

 Guarda come si facevano…

I FIGADEI 

Un altro dei magici e festosi risultati di questa storia erano i “figadei”, i fegatelli.  (Il fegato si chiama Fidagh, quindi qualcuno dice  fidaghei, ma sono i meno). 

Allora: si infilavano tocchi di fegato di maiale su spiedini di legno. Poteva essere un rametto di rosmarino privato degli aghi ( troppi avrebbero dato l’amaro) o legno qualsiasi. Si alternavano pezzi di fegato e pezzi di pancetta, poi si avvolgeva tutto dentro la retella grassa e si cuoceva, molto a lungo, finche il fegato diventava morbidissimo, quasi farinoso.   C’è una versione col rosmarino, e una, più originale,  che richiede un bel pizzico di semi di finocchio.  In ogni caso, a fine cottura, si metteva tutto dentro un recipiente di terracotta e si metteva a raffreddare. In superficie si formava uno strato di grasso freddo che sigillava ermeticamente il contenuto e faceva sì che si conservasse a lungo.  Bastava riscaldare, prelevare la quantità desiderata e raffreddare di nuovo il rimanente, per ottenere un nuovo sigillo ermetico.  Questo modo di isolare i cibi dall’aria con il loro grasso di cottura è effettivamente uno dei sistemi di conservazione più antichi per le carni cotte.  

C’è da dire che questi figadei, soprattutto con la polenta, erano talmente buoni che la conservazione non si prolungava mai troppo a lungo.