Nel cortile quasi tutte le case avevano un forno. Un casotto di pietra,  dove oltre al forno c’era uno stanzino antistante, con un ripiano per appoggiare la tavola del pane.  Qui si posava la tavola, coperta da una tovaglia vecchia,  con le micche da infornare, la cesta in cui mettere il pane cotto, da portare a casa. 

C’era la sòca per tagliare la legna, con la maràsa piantata sopra. Sotto il forno spesso vivevano i conigli. Sopra, tra il forno e il tetto, si tenevano le fascine: il posto era adatto per tenerle ben asciutte e ci stavano volentieri anche le galline. 

Questa consuetudine di sfruttare il tepore del forno è molto antica: ad  Urbino, durante il Rinascimento, nelle grandissime cucine di  Palazzo Ducale, sopra il forno, che era in verità grande quanto una stanza, dormivano i cuochi e il personale di cucina.

La costruzione di un forno richiedeva particolari mattoni di terra refrattaria e, soprattutto,  la bravura di farne una cupola perfetta. 

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Il forno si accendeva con fascine  e legna piuttosto piccola. Era un lavoro che richiedeva bravura e responsabilità, anzi, quasi un’arte. Dalla perizia con cui era stato scaldato il forno dipendeva la buona riuscita del pane. Sbagliare la cottura era argomento di conversazione per giorni. 

Gli attrezzi per il forno erano :

Un ferro abbastanza lungo, con la cima a due o più rami, da far entrare nel forno per far scivolare la brace da tutte le parti e scaldare uniformemente.

Quando il forno era abbastanza caldo si entrava con una specie di rastrello di lamiera e si tiravano fuori i tizzoni e la cenere. Si ammucchiava all’imboccatura del forno.  Si tenevano a portata di mano per scaldare ancora un po’ il forno, in caso di bisogno. Lo sportello del forno si chiamava “La piagna”, ma era di ferro, con un manico verticale, per reggerlo in piedi. 

Il forno “diceva da solo quando era pronto”, perché i mattoni diventavano bianchi.  Ci volevano circa tre quarti d’ora perché arrivasse alla temperatura giusta.

In piedi, appoggiato contro il muro, c’era un attrezzo particolare, un bastone con l’estremità avvolta da uno straccio spesso e pesante, (un vecchio paio di braghe da uomo erano l’ideale) fissato da un fil di ferro.   Questo era “ a’ spassón” : si bagnava in una latta piena d’acqua e si lavava il piano di mattoni del forno, dopo aver tolto la brace. Così il pianale restava pulito e il pane, cuocendo,  non si sporcava di cenere.    Le micche si infilavano nel forno con una pala di legno o di lamiera. Poi la donna chiudeva lo sportello, gli ammucchiava contro tutta la brace rimasta sul pianale, si puliva le mani nel grembiule e andava a guardare la sveglia sul camino.   Nel buio incandescente, al riparo dalla vista, si compiva la trasformazione di quell’impasto pallido e acidulo in asciutto e profumato pane.  Trascorso il tempo stabilito la piagna veniva rimossa, le micche si toglievano una per volta, con la pala di legno e cadevano in t’ la panéra.   I mattoni del forno però avrebbero conservato il loro calore ancora a lungo, per ore.  Si poteva quindi utilizzare per cotture più lente e prolungate. Una tortina semplice, di farina e zucchero, per i bambini. 

Oppure delle vecchie teglie ammaccate,  piene di mele raccolte sotto la pianta, impossibili da conservare. Si andavano poi a prendere verso sera e le bucce, divenute croccanti, si erano aperte rivelando una polpa farinosa, col sugo leggermente cristallizzato. 

Buone da mangiare dopo cena: un piccolo lusso, quasi un dolce.

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