Architettura 

Muri  = si facevano con le pietre del torrente, pietra calcarea e bionda, che dava un colore dorato ai paesi e li faceva un tutt’uno col paesaggio. Quando pioveva la pietra diventava più scura, color ocra, e i paesi si vedevano meglio, in mezzo al verde. Poi, asciugando. venivano riassorbiti dal bosco e dai campi, quasi completamente.   E’ un materiale che viene dalla terra e alla terra ritorna, quando si disfa, senza turbare nulla. 

Tetti =  i tetti erano di piane ( al piàgn), pietre sottili, nere, ottenute sfaldando la pietra secondo certe naturali linee  orizzontali. Fare il tetto era un’arte  e fu una tra le prime abilità ad andare perdute, come quella di costruire i forni.   Questi tetti poi si coprivano di muschi e di semprevivi, il  nero si macchiava di verdi  e di licheni gialli, a volte fioriva e si popolava di lucertole, insetti e uccelli.  

Solaio = era generalmente impraticabile, nient’altro che un piccolo spazio sotto le tegole.  Ma poteva servire anche per tenerci un po’ di legna sottile, qualche cosa di leggero. 

Cantina = non tutte le case ne avevano una sotterranea, per la difficoltà a scavare il terreno roccioso sotto le case.  Si chiamava però ugualmente “cantina” un locale protetto, fresco e buio, situato nelle pertinenze della casa, insinuato tra scale, ovili  e legnaie. A volte l’unica finestra di questo locale era un rettangolino aperto nella porta d’ingresso, riparato da un pezzetto di rete metallica.  E qui era quotidiana guerra coi topi, commensali mai invitati e sempre affamati. Si usavano trappole e trucchi ingegnosi per impedire che raggiungessero salami e formaggi, Farsi aiutare dal gatto era un’arma a doppio taglio, perché, tra un topolino e un salame, anche il gatto più onorato avrebbe scelto il salame. 

Molte case avevano la loggia, un elemento tipico dell’architettura rurale più antica.

Le case erano di due tipi: con l’ingresso al piano della strada oppure rialzato.

Quella rialzata rispetto al piano stradale era la casa tipica, di derivazione medievale, con l’ingresso in cima ad una breve scala, prima di legno e poi  di sasso: ( es. la Ca’ d’ Miclén, la Ca’ d’ Manén ( Delmo),   la ca’ d’la Filoja, ma anche quella della Nella e della Cistèn… ) 

Al piano terreno e seminterrato c’erano locali bassi e poco luminosi, le stalle delle pecore e del maiale, la cantina, il pollaio e altri locali di servizio. Una scala di sasso, di una sola rampa, portava  alla loggia. La loggia era  un pianerottolo coperto sul quale si trovava la porta d’ingresso, ma potevano esserci anche un secchiaio e un forno. Qui, arrivando,  si lasciavano gli stivali, i bastoni, i fagotti, il cappello di paglia.  Qui si mettevano ad asciugare al sole le pentole e i secchi lavati, le cipolle, l’aglio, l’asse con i funghi o le prugne da seccare.  Già negli anni cinquanta ad Agna le logge rimaste erano pochissime e le stalle erano costruite fuori dal paese. Una loggia era, ad esempio, in t’ l’ara ‘d Manèn, dove adesso c’è la casa di Delmo. La loggia teneva tutto l’angolo verso la strada e la scala era più o meno simile a quella attuale, solo orientata in direzione opposta. 

–  Altre case erano senza loggia, con la porta della cucina direttamente sulla strada  e i locali di abitazione erano a piano terra. In questo caso le stalle e le altre pertinenze erano sul retro o, spesso,  più lontano ancora.  

Materiali

Si usava la pietra calcarea per i muri, il legno per travi, i travetti e i pavimenti dei piani alti, piane  di pietra nera per il tetto, ma anche “piagnoni” di ardesia grigia per il pavimento del pianterreno. Gli intonaci erano sabbiosi e friabili.  Qualche volta si incorporavano direttamente nel muro di casa le rocce affioranti dal  terreno, oppure si inserivano pietre anche molto grandi, purché avessero la forma adatta. Tanto che, ancora oggi, piantare un chiodo in questi muri può riservare qualche complicazione: se si incontra una “ciastra” si sbriciolano scaglie di intonaco grandi come noci.

 

Pavimenti ( camera con vista) 

Per pavimentare il  piano terra si usavano “ i piagnon”, “al piàgn”, cioè le piane, diverse però da quelle dei tetti: queste erano larghe pietre lisce, grigio chiaro, a forma di poligoni irregolari, dai  bordi curvi, ben connessi tra loro. Quando erano spazzate e lavate acquistavano persino una certa debole lucentezza, dovuta alla levigatura degli innumerevoli passi che le avevano lisciate. Ai piani superiori il pavimento era di tavole, semplicemente poggiate l’una accanto all’altra sui travetti, e fissate con una cornice sul perimetro. A volte lo spazio libero nella  commessura tra due assi offriva la  “vista” della stanza sottostante. Queste tavole, piuttosto porose e  grezze,  recavano di rado tracce di inceratura o di verniciatura.  Se nella stanza sottostante c’erano il camino o la stufa, allora la camera era calda, perché il pavimento trasmetteva il calore e poi nel muro passava la canna fumaria  e tutta la parete si riscaldava a sufficienza. 

 

Serramenti

Le finestre erano piccole, dei rettangoli di 50 per 40, al più arrivavano a 100 per 70. Alcune piccolissime, nelle cantine o nei sottoscala, erano inquadrate da quattro pietre lunghe, quella superiore più ampia e sagomata delle altre, a fare da architrave, quella inferiore, più profonda, faceva da davanzale.

I serramenti erano di semplice legno, con vetri a riquadri, tenuti fermi da chiodini e stucco. Gli scuri erano del tipo liscio, senza decorazioni o fessure di nessun genere.   Le porte erano semplici, dello stesso tipo degli scuri: tavole connesse in maniera solida, senza civetterie. All’interno c’era un chiavistello ( al vrìi), fatto a saliscendi. Da un buchetto nella porta usciva all’esterno uno spago con un nodo all’estremità. Tirandolo si alzava, all’interno, la sbarretta di ferro  e si apriva la porta. Oppure la stessa operazione di sollevare il saliscendi si poteva fare con una maniglia di ferro esterna, da ruotare. Alcune erano fatte ad S, con una certa grazia. Questo sistema si usava durante il giorno.  Di notte si tirava un semplice catenaccio interno. Se si andava via per molte ore si poteva chiudere a chiave, ma la chiave la si lasciava lì accanto, sotto un sasso o dietro gli scuri della cucina.  Mentre  si compiva il gesto di nascondere la chiave si era consapevoli  di essere osservati da molti occhi, e quindi l’atto di nascondere significava “Nascondo per un estraneo che arrivasse con cattive intenzioni, non certo per voi, infatti vi mostro dove la metto”  .     Ed effettivamente,   in genere, accostare l’uscio  bastava.  

Rivestimenti, pitture e decorazioni  

Non esistevano ancora gli attuali battiscopa: gli zoccoli sul muro si dipingevano; si usava mescolare semplice fuliggine alla calce  e così si otteneva un bel nero, o un marrone scuro molto adatto. Per segnare una riga dritta sulla parete si usava una corda sporcata di fuliggine e tesa con due chiodini. Pizzicandola al centro e lasciandola andare si otteneva una vibrazione che percorreva tutta la corda, da un capo all’altro, percuoteva leggermente il muro e segnava una linea perfettamente diritta.  Poi si riempivano con  mano ferma gli spazi.  Questo sistema era buono per fare lo zoccolo, ma anche per dividere la parete in orizzontale, ad un metro o poco più di altezza. Di sotto si faceva un colore più scuro, un verde acqua, un blu cobalto deciso, un rosa intenso.  Di sopra si colorava con lo stesso colore più pallido o col bianco. Si completava con motivi verticali, paralleli, di foglie e fiori  o greche geometriche, fatti a rullo .  

Ai Tufi la sala da pranzo dei miei nonni aveva tutte le pareti decorate a rullo in verticale, con dei disegni a mazzi di fiori, marrone chiaro, sul fondo bianco.  Le cucine erano per lo più bianche, a calce. Bisognava ritoccarle spesso, perché il fumo del camino e il vapore della cucina la scurivano in fretta, ma non di nero, piuttosto di un marrone ambrato, grasso e organico, che aveva un suo odore familiare. 

Stanze

La cucina era la stanza d’ingresso. Da qui si passava in sala. Nel passaggio tra l’una e l’altra,  o direttamente dalla cucina, c’era una scala di legno, con una sola rampa, spesso ripida, sempre senza corrimano. Vecchi e bambini la percorrevano prodigiosamente,  senza eccessive difficoltà. La botola si poteva chiudere con uno sportello di legno, “la rimbalsa”.   Di sopra c’erano le camere da letto. Quella  dove c’era la rimbalza era ovviamente una stanza di passaggio. La botola non era protetta da ringhiere e quindi, ogni tanto,  qualcuno “ al vulàva la rimbalsa”, ma, tutto sommato, era un incidente piuttosto raro e raramente grave.

Arredi 

In cucina erano necessario che ci fossero  il camino, il secchiaio, una mensola per i secchi dell’acqua.  

“A’ camén “  significava il focolare, nel suo insieme: piano, cappa, canna fumaria. Aveva un piano ampio, rialzato di un palmo rispetto al resto del pavimento,  su cui appoggiare, oltre che i pezzi di  legna da ardere, le pentole da tenere in caldo, le pignatte con le cotture lente e prolungate, o anche degli oggetti da asciugare.  Sopra c’era una trave di legno, scura e lustra da diventar nera.  Faceva da mensola per poche cose obbligate, uguali in tutte le case: la grossa sveglia di metallo, il mortaio di legno per il sale ( a’ pistons dal sal”),  una scatola di latta decorata a fiori o con paesaggi, ma soprattutto le lettere e le cartoline di chi “era via”,  in Francia, in America.  Se c’ erano delle belle immagini si infilavano nel vetro del bufè. Chi entrava le vedeva, chiedeva notizie … era un’occasione per parlare dei parenti lontani, di posti lontani e mai visti. 

Le vecchie di casa, ogni tanto, lasciavano la scopa o il mestolo e se le rigiravano tra le mani: anche se non sapevano leggere, bastava guardare la scrittura, la figura.     

A fianco del camino stavano poggiati i ferri : la paletta ( al gavà), le molle, lo zampino, ( al moj, al sampinén)  e al supión, il soffione, un tubo lungo un metro, con cui si soffiava sulle braci per ravvivarle senza far volare la cenere. Bisognava soffiare soltanto: per inspirare bisognava staccare la bocca dal tubo, per non  inalare la cenere  ardente . A casa mia ce n’è uno ricavato dalla canna di un fucile. Non era una rarità, i residui bellici trovavano spesso un uso pacifico (Maggior fantasia si esprimeva nel riciclare gli elmetti militari). 

Gli alari di ferro per reggere la legna nel fuoco non erano indispensabili, si chiamavano, “cavdón” (uguale  al singolare e al plurale). Potevano esserci dei treppiedi, per tenere in caldo un tegame con due braci sotto. O per tenere in caldo una zuppiera che poi si metteva in tavola calda e …pulita.   Pulita, perché tutto, ma tutto quel che veniva a contatto con il fuoco del camino, si tingeva di nero:  il fondo delle pentole, le molle, la catena del fuoco. Da cui il detto diffuso: “ sei bella come il cul della padella”.  Le pentole, così annerite,  non potevano mai essere appoggiate, quindi si appendevano.  Sotto il lavandino o sotto la mensola dei secchi c’erano dei ganci apposta.  Non bisognava lavare ogni volta tutte le pentole: alcune si tenevano così, come  la padella dei fritti, che stava appesa alle travi del soffitto, oppure si sciacquavano ogni tanto, come il pentolino del caffè d’orzo, che stava appeso sotto al secchiaio, dietro una tendina:  si faceva questo caffè una volta ogni tre o quattro giorni e si riscaldava tutte le mattine. 

Vicino al secchiaio c’era la basìla, per lavarsi le mani. Era un catino di alluminio  o di ferro smaltato, poggiato su un trespolo di ferro. Ogni volta che cadeva dalle mani maldestre di qualcuno, la latta si ammaccava e lo smalto si sbeccava. 

I mobili erano pochi e sempre quelli strettamente necessari. Un tavolo, delle sedie…  A volte c’era una piattaia ( a’ rastèl).  Il cassone per la farina o la madia  stavano generalmente in cantina o in sala, in un posto, cioè, più fresco. A volte c’era un “bufè” .  Ma più spesso era una “cardensa a mür”, con le ante a vetri e le mensole coi pizzi di carta colorata.

 

A volte c’erano nicchie nel muro, col piano di pietra, per tazze o bicchieri o altro, ad es. per la pentola dell’acqua da bere, che era una mastellina a doghe di legno, detta “la sâccia”, la secchia. 

I secchi invece si chiamavano “cadarén”, se erano alti, “s’dèl”, se erano bassi. 

Alcune famiglie possedevano una macchina per cucire a pedale. Le radio dapprima erano rare, poi, col passare del tempo, in ogni famiglia ne entrò una, di legno, a valvole. Quando si accendeva ci metteva un po’ a scaldarsi, la voce saliva a poco a poco. La sintonia si aggiustava seguendo con la manopola i movimenti di un diaframma  detto “l’occhio magico”, rotondo e verde, con due bande che si allontanavano o si baciavano, secondo la stazione . Le stazioni avevano nomi strani e favolosi di città tanto lontane che, chissà,  forse non esistevano nemmeno: Beromunst, Timisoara, Erivan…

Vicino al camino c’era sempre una cassapanca di legno detta “la banca”, semplice o con il sedile a ribalta.  La  “tuman’na” imbottita e coperta di “vimpelle” è venuta verso il ‘60. 

Un’immagine della Sacra Famiglia appesa sul camino era, in genere, insieme alla coppia di candeline benedette, unite insieme per il cordino,  e ad un calendario (o meglio, un lunario),  il solo ornamento della stanza. 

In sala  c’erano pochissimi mobili. Un tavolo con le prolunghe,  per mangiare almeno in dodici e per ospitarne anche di più, nei giorni di sagra.  Potevano esserci delle credenze a muro, con vetri agli sportelli, coi ripiani protetti di stoffa, per le stoviglie più delicate. La mensola dei bicchieri era guarnita con un pizzetto o con una carta tagliata con le forbici,  uno smerlo semplice, con punte grandi.  

Se in casa c’erano dei quadri ( oltre alle immagini sacre) erano in questa stanza.  Qui, a volte si appendevano i ritratti degli avi: fotografie in bianco e nero, con figure scolorite e rigide,   ritoccate dai fotografi per cancellare le mostrine militari da una giacca, per regalare  una cravatta o una collanina che, nell’originale, non c’erano mai state.  

Camere da letto:  I letti erano di ferro verniciato o  di legno  Potevano esserci degli armadi a muro o di legno, a una o due ante.   Qualche volta c’era un trespolo di ferro e marmo  con un catino, una brocca, uno specchio, un  cassettone ( ‘a cumò )., una cornice ovale  (rigorosamente ovale e messa in orizzontale) con un’immagine sacra a colori allegri e ingenui, sopra il letto. Una damina di gesso con una gran gonna gonfia stava, nelle case più eleganti,  sul comò. 

C’era sempre una cassa di legno semplice, per i panni e le lenzuola: era la cassa del corredo della sposa.

 

Suppellettili di cucina 

Sotto la mensola dei secchi, vicino al lavandino, erano appese ad appositi ganci le pentole che si usavano più spesso: non si potevano appoggiare né sovrapporre, perché avevano il fondo tinto dalla fuliggine del camino o della stufa. C’era anche il pentolino pieno di caffè d’orzo, che si faceva per due o tre giorni. Ad una trave della cucina era appesa la padella dei fritti, che aveva un alto manico a cerchio, per poter essere agganciata alla catena del focolare. Il grasso di maiale che si usava per friggere  era riutilizzato più volte e restava nella padella da una volta all’altra, solidificandosi lentamente. Appeso lassù non correva il rischio di sporcarsi o di rovesciarsi.  Ho anche visto qualcuno passare una spazzola sul fondo della padella appesa e poi usarla per dare un po’ di nero alle scarpe da uomo.    Il camino aveva una catena, ad anelli  tondi e sonori, con uno o più ganci.  Tutte le manovre di aggancio della catena, del recupero di pentole e paioli avvenivano attraverso un rampino di ferro. 

Per le pentole era ancora in uso il rame, ed anche il rame richiedeva una sapiente manutenzione.  Innanzitutto doveva essere rivestito di stagno all’interno, per non rilasciare nel cibo composti tossici (gli avvelenamenti da verderame non erano infrequenti), poi richiedeva periodiche lucidature per mantenersi bello e brillante. Inoltre si bucava con relativa facilità,e lo strusciare avanti e indietro sulla pietra del focolare e  su quella della fontana o del secchiaio ne limava rapidamente il fondo. Per la stagnatura e le riparazioni passava un “tecnico” ambulante, il magnano. 

C’erano poi macinini e grattuge, padellette chiuse per tostare l’orzo ( a’ basturlén) , graticole per arrostire la polenta o il pane, rotelline per tagliare la sfoglia, grattaróle  (anzi,  la grataroéula) per raschiare il tagliere di legno della pasta o del pane  ( Ho saputo, con leggero raccapriccio, che in italiano si dovrebbe dire “radimàdia”, termine ricercato, probabilmente costruito a tavolino, lontano mille anni luce dalla sua stessa realtà quotidiana ). C’erano scopette di saggina per raccogliere le briciole ( la mansaren’na)  e una varietà di palette e pale e cucchiai di legno, di ogni forma e misura: per la farina, per la crusca, per il sale e lo zucchero. E poi c’erano gli imbuti (lurâtt), di tutte le misure, i colatoi per il latte e i setacci,  le bacinelle, o mastelli, le forme per il formaggio, …Il recipiente in cui si conservava il sale  per preservarlo dall’umidità era un barilotto di legno, il mortaio (a’ pistóns),  per pestare il sale grosso e farlo diventare fino, era sempre lavorato al tornio, con quelle quattro righe sovrapposte che erano il più semplice e irrinunciabile dei decori.        

Il materiale di cui erano fatti era sempre il legno: chi sapeva lavorare con la zappetta a manico corto o con il coltello se li faceva da sé, altrimenti si comperavano alla fiera o dagli ambulanti.  Tutto quello che oggi nelle nostre case è di plastica  ( e anche molti oggetti metallici) allora era di legno. 

Dietro questa massiccia presenza del legno c’era, naturalmente, tutta una gamma di competenze.  Si riconoscevano i legni dal colore, dalla venatura, si sapeva a quale punto della sua vita vegetativa e in quale giorno della luna si doveva tagliare un albero, come farlo stagionare, come usarlo.  Si conoscevano i legni adatti per alcuni usi o  per altri, i legni che non si tarlavano, quelli che non marcivano, quelli da bruciare e quelli da lavorare… Se ne  conosceva anche, in maniera approfondita, la resa come combustibile ( ottima la quercia, pessimo il fico) 

Mestoli e posate erano fatti di una lega giallina di rame, zinco e nichel, chiamata “alpacca”, che, lucidata ogni giorno con la cenere, prendeva un bellissimo color platino. Non si poteva lasciare troppo a lungo a contatto con i cibi, nemmeno con la minestra, perché si ossidava facilmente. Tutti i coltelli, sia quelli da cucina che quelli da tavola, con manico di legno o di osso, avevano sempre la lama di ferro, che si poteva affilare facilmente, al bisogno, ma che, a contatto con cibi contenenti acidi (aceto, pomodoro, mele crude…),  si copriva di macchie scure, il cui sapore era disgustoso e, si diceva, pericoloso per la salute. Tutti gli oggetti di ferro andavano quindi risciacquati subito dopo l’uso. E asciugati, perché non facessero la ruggine. 

Per fare la pestata di grasso e verdure si usava la mezzaluna, ma andavano bene anche un segmento di lama di falce, una raspa da falegname  o altri attrezzi da lavoro, scartati dall’artigiano  e  opportunamente modificati e immanicati. 

         

Riscaldamento = Cuocere i cibi con il fuoco di legna comportava inevitabilmente la produzione di calore, in casa, in tutte le stagioni, sia col camino che con la stufa. Per questo, chi poteva, teneva una stufa anche sotto il portico, per fare da mangiare d’estate senza scaldare troppo la casa, o  anche per cuocere le cose che richiedevano cotture molto lunghe, come le marmellate, le tinture, il sapone.   

Il fuoco si faceva nel camino o in una stufa. I modelli più usati di stufa erano la  “parigina” e la stufa economica.  La prima era bassa, di ghisa, a due o tre fuochi, con un numero stampato sul predellino, che ne indicava  la stazza. Aveva dei piedini che la tenevano sollevata dal pavimento e quindi permettevano di infilare sotto la stufa degli oggetti. C’erano sempre scarpe, spazzole, ciotole…   Questa cucina veniva tenuta lucida con una crema color argento, che si spremeva da un tubetto e si passava sul metallo con uno straccino, come una cera. Esiste ancora, questo prodotto,  e si chiama, come allora,  Metalcròm. Credo che riconoscerei subito l’odore che riempiva la cucina quando si riaccendeva la stufa dopo averla lucidata. Si usava anche per lustrare il piano della cucina economica.  Quelle più belle erano di marca “La Sovrana”, o “Becchi”, smaltate di bianco, con il forno e  con tanti sportelli intorno, piccoli scomparti più o meno caldi  utili per cuocere qualche piatto, qualche  mela.  Ma quelli più bassi e meno bollenti, d’inverno, erano una benedizione per asciugare le scarpe e le calze, quando si rientrava pieni di neve e di freddo e qualche volta, se nessuno vedeva,  ci si potevano anche infilare direttamente i piedi intirizziti, sfidando il rischio dei geloni.  

 

GUARDA COME SI FACEVA A METTERE IL FUOCO A LETTO

La sera le lenzuola erano gelide e un po’ umide. Allora, prima di andare a letto, si preparava uno scaldino di latta,  a forma di padellino, con il manico di legno e lunghe zampe, pieno di braci, accuratamente coperte di cenere. Si infilava nel letto un trabiccolo di legno detto “prete”, e dentro il prete si metteva lo scaldino col fuoco. La cenere serviva a smorzare il calore, ad  impedire che il fuoco della brace  incendiasse le coperte. Poi si ricopriva con le lenzuola e le coperte, chiudendole  bene vicino ai cuscini, come la pasta di un anolino da cui non dovesse uscire il ripieno.  Adesso il letto sembrava occupato da un ospite panciuto e coperto fino alle orecchie. Quando si andava a letto si sfilava prima con cura il pentolino, poi il prete, ed infine ci si infilava nelle lenzuola calde lasciando fuori solo i capelli. La mattina dopo ci si svegliava col  naso gelato, qualche volta la pipì era ghiacciata nel vaso da notte, ma il corpo era rimasto al caldo. 

Acqua = In cucina, sotto la finestra,  c’era un lavandino di pietra o di graniglia  ( “a’ s’ciaar”, il secchiaio. L’acqua della fontana era potabile, fresca  e gratuita, a disposizione di tutti. L’acqua in casa serviva per bere, per cucinare e per lavare.  Su una lunga mensola di marmo si tenevano i secchi di zinco pieni d’acqua della fontana, con un mestolo per servirsene e per bere. A volte l’acqua da bere era contenuta in un recipiente diverso, di legno o di rame.  L’acqua di scarico andava direttamente nell’orto, se l’orto era dietro alla casa,  perché, tutt’al più, conteneva un po’ di sapone di Marsiglia. Nelle altre case l’acqua di scarico si perdeva poco lontano. Se c’era della varecchina o della soda si versava nell’aia, magari su un ciuffo di ortiche, come diserbante.

La sciacquatura dei piatti, senza sapone, si teneva da parte per fare la zùtta alle vacche. 

Bagno e toeletta = La pulizia personale quotidiana avveniva nella basìla di alluminio o di ferro smaltato, che stava su un treppiede di ferro, in cucina  e che serviva per le mani e il viso.  Vicino c’era appeso un asciugamani di canapa, nei dintorni, in una sporgenza tra i sassi del muro,  si trovava una scheggia di sapone, quasi sempre sporca di sabbia o di terra.  Serviva per lavarsi le mani e la faccia. I piedi, a volte.  Ma le abluzioni impegnative si facevano in una bacinella più grande, di ferro zincato, ovale, a due manici. E si facevano la sera, al caldo vicino alla stufa che si andava spegnendo, dopo che tutti erano andati a letto.  I bambini facevano il bagno nel “soj” (la tinozza del bucato), a due o tre per volta.  D’estate lo facevano nel cortile, dopo aver lasciato scaldare l’acqua al sole, d’inverno in cucina, vicino alla stufa, e qualche volta la mamma faceva il bagno subito dopo di loro, per non sprecare troppa acqua calda. D’estate i bambini ed i ragazzi andavano a fare il bagno nel canale, dove  preparavano appositamente piccoli bacini artificiali, allargando i laghetti naturali tra le rocce  e alzando dighe a secco  (si diceva “j an fat al bòoz”).

Ci si pettinava con un dastrigón di alluminio, d’osso o di corno, dai denti lunghi e radi. Per i pidocchi c’era la patnen’na fissa, cioè coi denti fitti. 

I denti si pulivano con una foglia di salvia o con il bicarbonato. Circolava anche qualche spazzolino con setole naturali, quasi sempre malconcio e accompagnato da tubetti di dentifricio di stagno verniciato a colori, con nomi stranieri bellissimi, che non significavano nulla, ma avevano il sapore  del lusso.  Durban’s, per dirne uno. 

I capelli si potevano lavare col ranno ( sì, quello del bucato), bastava diluirlo un  po’… 

Ma dopo la guerra si cominciarono a utilizzare delle bustine di sciampo in polvere, che si scioglieva in un bicchiere d’acqua tiepida. 

Gabinetto  =  Mentre adesso queste funzioni corporali trovano una sola destinazione, cioè il water completo di assetta, sciacquone e carta igienica a quattro veli, un tempo, nella vita di paese, c’era ampia scelta circa il collocamento dei propri “prodotti”. 

Di giorno la campagna offriva i suoi infiniti angoli nascosti e la scelta fra diversi tipi di foglia, da usare come carta igienica. Le migliori erano le foglie morbide e vellutate del nocciòlo, perfette anche come misura, ma vicino ai corsi d’acqua c’erano anche le foglie di Fàrfaro ( al farfàar) , molto lisce e larghe. Di notte si ricorreva al “bucàl” (il boccale), cioè il vaso da notte, sotto il letto o nel comodino. D’inverno l’ideale era la stalla, calda e riparata, comoda anche per lo smaltimento. Alcune famiglie invece avevano costruito un capannotto di assi di recupero, vicino o addirittura sopra il letamaio, con un sistema, per così dire “ a caduta diretta”. Altri capannotti erano, invece, dietro le case, con un sedile di legno, provvisto di buco regolamentare, ed una fossa che andava ripulita periodicamente: se ne vedono di sorprendentemente simili, in pietra, nei ruderi delle antiche costruzioni romane.  

Ci si rende conto che il concetto di privacy e la soglia di tolleranza per gli odori e per queste attività erano molto diversi da oggi. 

Basti pensare alla diversa tolleranza per le mosche e alla tranquilla vicinanza tra stalle e abitazioni. 

Anche il nome era senza giri inutili:  si chiamava “ a’ cagadùr”, cioè il cagatoio. In questi  gabinetti a capanno c’era un comfort immancabile: un filo robusto di zinco, piegato a gancio, su cui si trovavano infilati dei riquadri di carta, ricavati da vecchi giornali. Chiunque abbia più di cinquant’anni ricorda di aver trascorso molto tempo in lettura in questi locali e di  aver ricavato da questa fonte moltissime notizie ed informazioni interessanti. A volte capitava che una notizia avvincente fosse troncata all’improvviso  per esaurimento della carta, oppure che venisse completata a sorpresa dopo alcuni giorni, ad un successivo rifornimento di carta, con viva soddisfazione dell’ospite. Ma capitava anche  di dover aspettare che l’inquilino che ci precedeva avesse terminato, con suo comodo, oltre al servizio anche la lettura. 

 Quando, all’inizio degli anni sessanta, qualche famiglia cominciò “a fare aggiustare la casa”, e, nella ristrutturazione, fece costruire anche il bagno  (ormai c’erano anche le fognature), ci fu qualcuno tra i più vecchi  che si oppose fieramente, argomentando che era cosa da sporcaccioni  fare i propri bisogni dentro le mura di casa. 

La luce artificiale

Un filo con una lampadina da trenta candele, coperta da un piatto di smalto bianco, col bordino blu, per lungo tempo fu il lampadario universale per tutte le stanze, per la casa e la stalla, persino per i lampioni stradali.  A volte il portalampada aveva un doppio uso, dettato dalla semplicità di questi primi impianti elettrici: accanto alla lampadina c’erano i fori di una presa di corrente di porcellana. Serviva per attaccare il ferro da stiro e, visto che si stirava sul tavolo di cucina, era comodissimo. Ma bisognava stirare di giorno, quando la luce era spenta:altrimenti l’oscillazione della lampadina accesa, trascinata dal cordone del ferro da stiro,  era insopportabile. 

 

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