Questi modi di dire sono tipici di questi paesi. Alcuni di essi  già a Parma sono assolutamente sconosciuti.

A d’ chi sit? = Di chi sei?   Di quale famiglia sei . Era la prima domanda che un anziano ti faceva, appena capitavi in paese. Si doveva rispondere con il nome della madre o del padre e il soprannome della famiglia. 

 “E son la fioéula  ad Vigión dai Tü”.  Ma anche solo: “E son ad Miclén.”  Questa è una domanda universale; in Puglia si dice, con una connotazione di identità ancora più forte: “A ci ‘mpartieni?”  A chi appartieni. 

 

A cravasücca = ( letteralmente : a caprazucca ) significa portare qualcuno, di solito un bambino, seduto a cavalcioni sul collo.

 “Ah, Dio dài, che vita l’è mai…”    ( “Ah,Dio, ma che vita è ?” ) si diceva, magari con un sospiro, per sottolineare una situazione faticosa o comunque difficile da sopportare. Era sempre però prevalente l’aspetto ironico, scherzoso. Infatti si terminava con  “…avegh a’ mrùz e a’ n’a vàdar mai!”. ( “avere il moroso e non vederlo mai”) Inutile dire che era un modo usato solo dalle donne.

A m’è darni’ al cül: “mi si è informicolato il sedere”; succede quando si sta seduti nella stessa posizione per molto tempo. 

A’ m’è ‘ndà in tant sango” = letteralmente:  “mi è andato in tanto sangue” cioè “si è trasformato in altrettanto buon sangue”. Si dice di qualcosa che abbiamo mangiato volentieri. Ma qualche volta è usato anche in senso figurato. 

Anca custa l’è fatta….a’ dzéva cul c’l’ava masà su pàdar  =  “ Anche questa è fatta, diceva quello che aveva ammazzato suo padre”   Originalissimo punto di vista.  Si dice abitualmente per esprimere la soddisfazione di aver fatto una buona parte di lavoro, di essersi tolti un grosso impegno. Corrisponde al parmigiano “E vón !…”

Andar a la lòja = andare per forza d’inerzia,  come inebetiti.

Avegh la nòna= avere la malattia del sonno.

A n’ gh’avér né fioéu, né cagnoéu. =  Non aver né figli né cagnolini. Si dice di chi non ha impegni familiari.

Essar nòbal: letteralmente è esser nobile.  “C’me t’sì nòbla”  però significa “come sei bianca di pelle”.  Il pallore era considerato un segno di nobiltà, di finezza aristocratica. L’abbronzatura era prerogativa dei lavoratori dei campi, un simbolo di appartenenza a classi povere. Oggi avviene il contrario: l’abbronzatura significa tempo libero, viaggi, salute, cioè.… soldi.

Dio gh’ n’abbia parta = Dio ne abbia parte.  Si dice quando si realizza un desiderio concreto  (un buon pranzo, un incontro desiderato, quando si pensa “Finalmente siamo qui e siamo felici”)  o anche quando si fa qualcosa di bello per la prima volta.  Allora si offre una parte a Dio, come ringraziamento e partecipazione. Ricorda molto i riti pagani di offerte agli dei, con i prodotti della terra, per ringraziarli di aver concesso il raccolto e per mettersi al riparo dalla loro invidia.

Ci sono le benedizioni

Dio t’armèrta = dio ti rimeriti 

Dio ‘t daga bén = dio ti dia bene

Dio ‘t cunsùla = dio ti consóli.  ( anzi: “Eh! Dio t’ cunsùla” tipicamente usato dalle donne) Dei tre, mi sembra il più bello.

Dio Bòne = per chi ha fatto un briciolo di latino a scuola: ditemi se questo non è un vero e proprio vocativo!

 

Giüssamai!   = Figuriamoci! Chissamai!

E ci sono anche le maledizioni

Dio te fülgara = dio ti folgori ( anche: Dio te fülmina)

Cràpa = crepa

Va in t’la furca = Vai sulla forca

Va  a cagàr in t’al rùmal= va’ a cagare nella crusca   ( e questo è proprio un mistero! )

Catàr l’üss ad nuza = trovar l’uscio di noce.  Incontrare una porta chiusa, (ma di legno duro!).  Cioè un secco rifiuto. Si diceva anche a proposito di virtù femminile: adesso diremmo  “andare in bianco”. 

Ciapàr l’azìi = L’azìi è traducibile con il termine “assillo”.  Le vacche, infastidite da qualche insetto oppure agitate da qualche motivo noto solo a loro, cominciavano a dar segni di allarme, ad alzare la coda… E infine partivano al galoppo e non c’era modo di fermarle. Spesso il fenomeno si estendeva a due o tre bestie, o magari anche a tutte, in maniera irrefrenabile. (La parola panico deriva effettivamente da Pan, il dio pagano dei boschi, mezzo uomo e mezzo caprone, che spaventava le greggi e le faceva fuggire all’impazzata.) Era sempre una grana per chi doveva riportarle a casa. A volte era invece una scusa, sempre buona, anche se frusta, per giustificare un ritardo.  Altre volte ancora era un dispetto da parte dei compagni.  Infatti bastava fare con la bocca il ronzio di una vespa e, sicuramente, … al vach e ciapàvin l’azìi.  

Far di simitón =  Fare dei versi, delle smorfie, delle mosse con il corpo… Usato sempre in senso critico, per indicare chi fa storie esagerate e inutili di fronte a una proposta. Oppure fa il buffone senza motivo.   Deriva ( questo è interessante) dal nome di uno strumento musicale, il “semitòno”. Si tratta di una specie di piccola fisarmonica con pochi tasti, con un soffietto piccolo e lungo, che richiedeva ampi movimenti delle braccia per essere suonata. Veniva usata dai suonatori di strada, che magari accentuavano il movimento e lo accompagnavano con tutto il corpo, per fare spettacolo. 

Garì = Gherigli .Si dice allo stesso modo anche al singolare: un garì,  dü garì.   A volte indica le mandorle sgusciate (si dice, infatti, “la turta ad garì”),   a volte qualunque altro seme liberato dal nocciolo (es. quello della pesca). Ma si dice anche dei semini di fico secco che si infilano tra i denti…. L’è pien ‘d garì. 

L’è tüta erba e fòja = “è tutta erba e foglia”, si dice di una pioggia primaverile leggera e abbondante, alternata al sole, che favorisce la crescita delle piante . E per l’economia del contadino erano utilissime anche le semplici foglie che si usavano come lettiera per le bestie o cibo per le capre e le pecore. 

Mat c’me na cavagnà in t’un spiaz =”Matto come una cavagnà in un pendìo”.   La cavagnà era un cesto, di salice, a forma di ruota con i raggi, con un buco sul fondo per esser appoggiato e portato sul capo dalle donne.  Aveva un diametro di poco meno di un metro e serviva per portare a casa, alla fine della giornata di lavoro, (sarebbe stato un peccato fare un viaggio a vuoto) le foglie fresche destinate alla lettiera del bestiame; –   Quando la cavagnà iniziava a rotolare in un campo in discesa ( un spiàz), essendo molto leggera ed irregolare, faceva fantastici salti,  alti e imprevedibili: questo modo di dire si usa per definire una persona allegra e scatenata, ma innocua.

Mumài= è un rafforzativo.   “Che cosa dici mai?! ” si dice “co’ dit mumài”

Na fargà a préda sütta  = una fregatura a pietra asciutta, una fregatura inaspettata e inutile, che brucia molto. Si riferisce al gesto dei falciatori d’erba che affilavano la lama della falce con la pietra, (“la preda”),  che si teneva dentro al cudàr, un corno di bue con tre dita d’acqua, a sua volta appeso alla cintura. L’affilatura della falce si faceva bagnando bene la pietra prima di passarla sul filo della lama. Sfregare la pietra… asciutta era un gesto frettoloso e approssimativo, che dava pessimi risultati.  

Vocaboli:  “al fer da zgar”, la falce  fienaia grande, si distingueva dalla “ fren’na”,  più sottile e leggera, buona per piccoli spazi, per rifilature strette. Ad esempio,  intorno al’orto, fra le tombe del cimitero… 

al cudàr”, si chiamava così perché  la pietra da affilatura si chiama, in italiano,  cote ( cuda) .  Quindi Cudàr significa appunto,  il porta-cote.

Nunsâr: offrire, proporre qualcosa a qualcuno.

Pütòst a moéura ‘na vaca a ‘m pòvar diaval” =  ( sottinteso:   “piuttosto di morire tu…”) L’ho sentita solo una volta, da una signora, stanca di accudire un parente quasi centenario che, tra il caratteraccio  e vecchiaia, era diventato molto faticoso. Lei gli disse questa frase sul muso, durante un battibecco. E lui si mise a ridere, senza rancore. Era un uomo religioso, ma anche lui cominciava a sospettare che il Padreterno si fosse scordato di lui.  

Quand a son’na l’Ave Maria, o a ca’ o par la via = Quando tramonta il sole (bisogna essere ) in casa, o sulla strada di casa.  Questa esortazione era somministrata dalle madri alle ragazze in procinto di uscire con le amiche.

Quatà a piagn = coperto a tegole.  Si dice di uno che è ben protetto, in senso fisico o metaforico.  Per esser più precisi “al piagn” sono le “piane”, cioè le pietre piatte che si usavano per coprire i tetti.  Coloro che sono capaci di fabbricare un bel tetto “a piagn” si contano ormai sulle dita di una mano. O forse non ci sono più. 

Russ c’me i manzoeu = Rosso come i vitelli. I vitelli erano “rossi”. Era chiamato rosso il colore “fromentino“, cioè il color oro rosso del frumento maturo. Il fromentino è un colore di mantello animale che esiste veramente nella terminologia scientifica ed è tipico dei vitelli di razza Brunalpina, la razza più diffusa in quel periodo. 

Del resto anche il formaggio grana, che, quand’era molto stagionato, prendeva quel tono un po’ rosato, si chiamava “a’ furmaj russ”. Ma forse il termine deriva dal colore che anticamente si dava alla crosta, con sostanze grasse, per proteggerla. 

Ragnàr = piangere  “I’ ù fatt  ‘na bella ragnà”. Si diceva con soddisfazione; il pianto era spesso riconosciuto come liberatorio. Come fare una bella sudata. 

Saltar in t’i strisùr = succede quando un bambino si sveglia di notte, all’improvviso,  mandando strilli acutissimi, senza che si riesca a calmarlo. Si dice, in senso figurato,  quando uno si agita e strilla improvvisamente per qualcosa.  

Stragagnàr = emettere un gemito di dolore fisico, molto forte e disarticolato. Si dice per lo più parlando di mucche.

Spuntargnàr = emettere un gemito sordo, breve, ripetuto.  Si dice, per esempio,  di un animale quando è malato, che  “ à spuntrìgna”. 

Sgrazlàr=  i primi gorgheggi di un bambino, prima di imparare a parlare. La Sgrazla però era lo strumento di legno, a manovella, che si faceva roteare in aria e  si usava, per il suo rumore forte e caratteristico, durante la settimana di  Pasqua, quando le campane erano “imbavagliate”. In italiano si chiama “raganella”.

Srinèla = Termine bellissimo:  letteralmente vuol dire “serenella”, ma in questo caso significa qualcosa di complesso;   indica un cielo notturno d’inverno, sereno e gelido.  “Foéura,  a la srinèla”.  

A gh’è un srén ca péla i ghétt” =  C’è un freddo che pela i gatti. Anche qui srén vuol dire “notte stellata di gelo”. Perché queste notti pelano i gatti?  Difficile pensare che i gatti perdano il pelo per il troppo freddo..  Per quanto quest’idea sia sgradevole per noi, in epoche in cui la carne era un lusso e  qualunque animale era commestibile (solo il  cane non è mai stato importunato da questo punto di vista), potrebbe trattarsi di una fase di preparazione del gatto, inteso come pietanza, insieme alla frollatura nella neve.

“ Cul dal bastunà…”

 “Santa Maria Materdèi, cav’t a’ scarp e matt’t i spèi.”   (per Santa Maria, Madre di Dio….Togliti le scarpe e mettiti gli zoccoli)

Queste frasi derivano probabilmente da storie di cui è rimasto solo il frammento. 

“Va là, va là p’r al pian, c’al mal al porta al san “    “Va là, va’ la per il piano, che il malato porta il sano”.

 Si usa per dire  … ” Ma vieni a lamentarti con me, che sto peggio di te?”   Nessuno ha saputo spiegarmi da dove venisse. Poi ho trovato un libretto, a cura di una scolaresca della Val Baganza, con favole e filastrocche raccolte tra gli anziani dei paesi. Tra queste c’era una favola in cui un lupo e una volpe, compagni di ruberie, dopo aver preso una memorabile carica di legnate, si avviano verso casa, litigando tra loro per stabilire chi dei due ne ha buscate di più  e quindi ha diritto ad essere portato in  groppa dall’altro. 

La storia finiva proprio con quelle esatte parole “ va là, va là p’r al pian, c’al mal al porta al san “    

Mars, Marsòn, ténz’m al cül e miga al mustassòn =  “Marzo, Marzone, tingimi il sedere e non il muso”, si diceva il primo di marzo.   ( C ) “Andavi in una posizione dove ti vedeva il sole,  poi tiravi su i vestiti e gli facevi vedere il sedere”.      

Questo aveva un senso propiziatorio perché  i lavori dei campi avessero il clima giusto. Da notare il bellissimo “ ti vedeva il sole” : era lui che vedeva te. 

Cràssa ! Dio e San Zvanèn, fè gnir grand i pipén picén = Cresci! Dio e San Giovannino, fate diventar grandi i bambini piccini.  Questa formula si recitava ogni volta che un bambino piccolo starnutiva. 

Quando una nonna raccontava una storia ai bambini questi chiedevano sempre che la storia continuasse, e insistevano “E poi…? E Poi?….  “  

Finché la nonna, stanca di inventare, concludeva in gloria: 

E po’ l’è scapüsà in t’na bida

e la fola l’è bèle f’nida.

Parole perdute 

Adàs =  ( con la à lunga ) Addarsi, accorgersi  – J s’n’en adà.  – A m’i n’ son adà. – A s’ n’è mia adà. 

“Andar par coidóra” = andare a far la campagna di raccolta delle castagne o delle nocciole . Coidóra =  coglitrice, da (rac)coglitora. 

Attrezzi da caminetto: Gavà, moj, supión, cavdón, sampinén.

Bertùria = (Zona di Stadirano)   Meconio.  La prima cacca dei neonati. 

Si usa dire che la  virtù che manca a qualcuno ( es. la pazienza, la voglia di lavorare, ecc.) “se n’è andata con la berturia”. 

 

b’ghì = coi beghi, cioè i vermi. Era considerato pregiatissimo il formaggio che avesse raggiunto questa particolare condizione, e quindi per definire una persona musona senza rimendio, si diceva:   al ne ridda gnanca a dèregh un formaj b’ghì!  

 

Càccar = torsolo di mele e pere, in particolare quel  ciuffetto di stami secchi,  residuo del fiore, nella  la parte inferiore del frutto. 

Cardensa  (o  Cherdénsa) =   Credenza, mobile in cui stavano  i cibi. Si poteva chiudere a chiave. 

E sarà capitato a qualcuno di domandarsi l’origine di questo nome: il termine completo è mobile da credenza”. Seguendo  il fascino accattivante della storia delle parole andiamo indietro nel tempo fino al Medioevo, ed entriamo nella cucina del palazzo di un nobile. Qui scopriamo che i cibi preparati dalle cucine erano spesso, e a ragione, sospettati di essere stati avvelenati da uno tra i tanti nemici del padrone. Le pietanze quindi venivano fatte assaggiare al credenziere, il servitore addetto anche alla cura della dispensa, e dopo alcune ore, se il povero servitore era ancora in salute, venivano giudicate “buone” e conservate sotto chiave in un mobile basso e largo. Quello era dunque “ l’armadio a credenza”, l’armadio dove erano custodite le pietanze credibili, perchè erano state testate. Il padrone mangiava solo i cibi chiusi in ‘credenza’.  Il credenziere rispondeva con la vita della loro affidabilità. 

Durmidùr = tempia. Un culp in t’i durmidur era considerato mortale. 

Faraòst =  Pranzo che il committente di una costruzione offriva agli operai al termine del lavoro. Si faceva “in loco”, subito dopo  della chiusura del tetto e l’esposizione rituale della bandiera sul culmine. 

Fiocca  = chiaro d’uovo  montato a neve 

Ghirèlla = vestitino a sottana, per maschietti.   In epoca in cui non esistevano i pannolini  usa e getta, si portava senza mutandine e consentiva una gestione rapida e autonoma delle “urgenze” da parte del bambino.  Si abbandonava  solo al momento di indossare le prime braghe corte.     

Gméra = la lama dell’aratro, il vomere.  A’ sì Pidon d’Miclèn chiamava teneramente sua moglie Adalgisa “la mè gméra” , per il suo fisico lungo e snello. 

Guarnàr = governare le bestie. 

Navàtta = orecchino, plurale “al navàtt”.  La  à   è molto chiusa e molto breve:  la pronuncia più vicina si ottiene pronunciando quasi come se la vocale non ci fosse.  

E’ usato, a volte, per indicare il  tubo di scarico della  grondaia .

Nudrigar = fare un piccolo lavoro manuale, attorno a piccole faccende. ES. : “ co’ sit  adrè a nudrigàr ?”

Nunsàr = offrire, proporre: Un pezzo di pane o una figlia  in isposa, indifferentemente.  

Linsàr = Tagliare la prima fetta, aprire una confezione. Si riferisce a provviste di cibo. Linsàr un salàm, una damigian’na. 

Parti  del Viol =  stantarra ( le due assi verticali, completate da una serie di buchi in alto) , parsèl ( legno lungo quanto il carro, con una parte a doppio binario nel centro) ,  gambli ( le slitte) , giasìl ( estremità anteriore del trave centrale, con funzione di timone) , proéuli ( pioli cilindrici, che servivano a fermare il parsèl  sul carico)

La modalità di carico erasemplice.  Fieno o covoni di grano si accatastavano con la forca sul piano del viol.  A carico completato, si infilava il parsèl sulle stantarre, si bloccava con una proeula per  ogni stantarra, infilata nei buchi  e, fatto questo,  il carico si poteva trasportare. Sulla cima delle stantarre,  che rimaneva libera dal carico, come gli alberi di una nave, si assicuravano  le poche cose della giornata: i fagotti, le pentole, la giacca, un cesto di pere raccolte in un certo albero… Si attaccavano due mucche aggiogate e si tornava a casa.  Il viòl faceva tutto il rumore possibile, con le slitte che strisciavano sulle strade sterrate e sassose, sobbalzando e scuotendo vigorosamente sia il suo fasciame che il carico. 

Scarmàj = La ventola, fatta di piume di tacchino, che si usava per ravvivare il fuoco. Le piume di tacchino non sono belle   e per di più, con quell’uso,  erano spesso bruciacchiate e sporche di cenere o fuliggine. Si dice di donna brutta  (brutta c’me un scarmaj   – L’è un scarmaj) .  La parola deriva da “schermaglio” ( schermo, ventaglio  ), probabilmente per la sua forma che lo assimila al ventaglio, usato appunto come schermo dalle signore.  

 Sarüch  =   È la pronuncia popolare dell’avverbio tedesco zurück che significa “indietro”  e risale ai tempi della dominazione austriaca.
I soldati e la polizia dell’epoca, erano soliti intimare “zurück, zurück” alla gente, ossia “indietro, indietro”, quando vi erano cortei o manifestazioni, accompagnando la parola con spinte e urti. 

Där un sarùch significa dare un colpo sulla fronte a qualcuno ( come se, appunto, lo si volesse mandare indietro) 

 

Sgranfignón = Gnocchi ; bello, eh 

Si chiamavano così perchè il cubetto di impasto di patate, cieco e intontito, si passava sui rebbi della forchetta, con un rapido colpo di pollice. Ne rimbalzava, per improvvisa magia, un cosino vispo, paffuto e riccio, con un pancino concavo, da una parte, per riempirsi di sugo, e un dorso curvo, dall’altra, rigato con tre segni, come tre graffi ( sgranfìgn), perchè ci si aggrappasse il formaggio. Per dire che una cosa si è spiccicata si dice “spargnaclà c’me un sgranfignon”. Un bel verso settenario, come niente fosse.

Spalincà = steccato, staccionata.  

 

Spadarèlli =  ciabatte   senza tacco,  chiuse davanti e aperte dietro, per lo più da uomo,: simili, di nome e di fatto, alle espadrillas.

Squaràss  ( singolare : squarassa) = racchette da neve Si usa ormai solo nei paragoni scherzosi, per indicare scarpe grandi : Al pàrin du squarass.  Purtroppo è invalso l’uso del friulano Ciàspole: termine senz’altro bello e orecchiabile, ma pochi sanno che esiste anche l’equivalente nostrano. 

Scavartèi   ( singolare Scavatèll) = trampoli . Erano  utilizzati per guadare i torrenti e anche per gioco, dai ragazzi, che provavano la loro abilità e intanto si allenavano.

Supión = soffione. Era un tubo di ferro, lungo circa un metro, di un dito o poco più di diametro interno, munito di due lunghi piedini ad una estremità della canna, per appoggiarlo. Si usava per soffiare sulla brace a  ravvivare la fiamma. 

Spesso veniva ricavato dalla canna di vecchi fucili. Era, complessivamente, un attrezzo pesante, ma maneggevole.  La vecchia Orsola,  l’Ursèlla d’in Butgnòla, un pomeriggio d’estate, raggiunse silenziosa il genero, che dormiva sotto un albero, davanti a casa,  sollevò il soffione che aveva tenuto nascosto dietro la schiena e glielo calò sulla testa, più e più volte.  Lui la maltrattava e…  “lé  la l’ha masà a supiunà”, diceva la gente, con tono tra l’orrore e la reverenza. Un paio di episodi del genere e la casa fu ribattezzata “la Ca’ d’i mat”. La gente girava al largo; la dinastia si estinse per mancanza di … matrimoni. 

Torototéla    Tutte le descrizioni che ne sono state date concordano in alcuni punti essenziali: la festosa accoglienza che veniva fatta a questo poeta girovago stagionale, la filastrocca che cantava su un rozzo strumento, ( l’uno e l’altra chiamati ugualmente Torototéla, come lui ), l’uso di figure di legno e di cartone , vivacemente colorate, che rappresentavano, animate da una cordicella regolata dal cantore, vari mestieri (il fabbro, l’arrotino, il falegname…)

Lo strumento del Torototéla  era fatto di un arco di legno, teso da una corda, fissata su una zucca, che fungeva da cassa armonica. La corda, sfregata da un archetto, metteva in risonanza la zucca, creando qualche nota. Finito il suo repertorio di canzoni satiriche, di poesie e canzoni da questua, chiedeva un obolo, ringraziando in rima. E la gente si faceva intorno numerosa e lo seguiva quasi in processione per qualche  tratto di strada.

Arti e mestieri tradizionali  del Veneto – pag. 128

Filastrocca di una canzoncina da Torototèla in uso nel nostro Appennino : 

“Torototèla Maria Lussia, 

castighè la vostra gatta, 

c’l’ha m’ha rutt la mè pignatta, 

l’ha mangià la ciccia mia, 

Torototèla Maria Lussia…” 

( sig, Caterina Priori, classe 1926, Agna di Corniglio) 

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