IL MAIALE

C’erano tre modi per dire Maiale:  si chiamava Ninén  o Gugnén da vivo e Nimàl, da morto. 

Si comperava alla fiera, quando era piccolo. A casa c’era pronto per lui “a’ stabj”, lo stabbio, una cella di misure limitate, in cui poteva appena muoversi, fornita di un trogolo di sasso o di cemento.  Il trogolo poteva essere riempito dall’esterno, attraverso una finestrella con  un canaletto, senza aprire la porta. Entrare nello stabbio, in effetti,  non era un’operazione da farsi a cuor leggero: il pavimento era sporco e scivoloso, la puzza era forte, il maiale cercava di uscire e, soprattutto quando cominciava a superare il quintale di peso, ostacolarlo non era impresa facile.  

Per lo più, se ne stava sdraiato, emettendo solo sbuffi, sussulti e grugniti, ma a volte la sua immobilità sonnolenta  lasciava posto alla follia improvvisa:  quando lo si liberava per consentirgli un breve giretto nel cortile, le sue corse all’impazzata mettevano lo scompiglio tra i presenti e, a volte, guidato da un istinto selvatico, “caricava”, mandando a gambe per aria chi si trovava sulla sua strada. 

Si raccontavano su di lui storie di antropofagia, facilmente confermate dal suo gusto per la carne, ma, alla fine, quello che sarebbe divenuto puro cibo (anzi, il simbolo del cibo per eccellenza) … era lui. 

A differenza degli altri animali da cortile non lo si toccava mai, non si poteva certo dargli una carezza o una pacca amichevole, non c’era con il maiale lo stesso rapporto di simpatia affettuosa che poteva esserci con le vacche o le pecore o le galline…, non aveva mai nemmeno un nome …. però  era oggetto di cure e riguardi particolari. 

E anche alla fine, quando si decideva di ammazzarlo,  i sentimenti che accompagnavano il rito erano  ancora una volta conflittuali: 

una morte violenta si trasformava in una festa.

I bambini erano tristi per la prossima morte di un animale che “conoscevano”,  le donne ansiose, gli uomini irrequieti…  

Tutti si apprestavano a vivere una scena di drammaticità molto intensa, perché nessun altro animale da carne si ribellava con tanta violenza alla propria sorte. Si viveva una rappresentazione teatrale drammatica collettiva vera e propria. Si compiva un antico rito sacrificale, all’aperto, con tanto di celebrante, vittima e … coro.   

Le grida degli uomini, l’arma usata ( uno stiletto assassino), la fuga del maiale, l’azione rapidissima dell’ “accoramento”, gli strilli altissimi della vittima, la neve, il sangue…. contribuivano ad innalzare il potenziale emotivo.  

L’animale veniva liberato, usciva dallo stabbio e restava un attimo disorientato, poi “sentiva” l’atmosfera e iniziava a correre… 

A questo punto veniva costretto a dirigersi verso una strettoia, dove un uomo lo aspettava armato di coradór, un semplice stiletto di ferro, lungo circa venti centimetri. Il gesto doveva essere rapido e senza esitazioni: si afferrava il maiale per una zampa anteriore e gli si faceva perdere l’equilibrio, mentre, con l’altra mano  si infilava il punteruolo nello spazio tra la zampa e il torace, in direzione del cuore. Gli urli dell’animale erano strazianti, i bambini e le donne scappavano in cerca di un posto impossibile dove quegli strilli non li raggiungessero. Gli strilli erano acutissimi e si sentivano ovunque.  Se il coradór era stato usato bene, duravano solo qualche minuto.  

E si poteva dare inizio alla seconda parte della storia. 

L’uccisione del maiale, significava cibo per l’inverno, e per giunta cibo saporito, gustoso come nessun altro; ma non solo …. Dato che alcune parti erano facilmente deperibili e andavano consumate subito,  i giorni immediatamente successivi alla macellazione erano un susseguirsi di piccoli banchetti familiari a base di frattaglie, sanguinacci, migliaccio, salsicce… una vera festa della carne che in quei tempi, capitava appunto una volta l’anno.   

C’è un proverbio. diffuso in tutta l’Emilia. che dice “Volete essere felici per tre giorni? Sposatevi!  Volete esser felici per una settimana? Ammazzate il maiale! 

 L’uccisone del maiale cadeva d’inverno, tra Sant’Andrea (30 novembre) e Sant’Antonio (17 gennaio), perché erano i giorni più freddi dell’anno e la conservabilità della carne era così assicurata, in tempi in cui i frigoriferi erano di là da venire. 

 Erano poi i mesi in cui il maiale raggiungeva la sua miglior “forma” come animale da ingrasso. La spessa copertura di grasso, in vista del freddo, era stata accumulata, ma non ancora utilizzata. E il maiale che si macellava a quei tempi era davvero molto grasso. Era un prodotto completamente diverso da quello di oggi.  Il maiale dei nostri nonni arrivava senza difficoltà ai 200 chili di peso (e magari li superava, tanto che spesso aveva difficoltà a reggersi sulle zampe),  e uno dei parametri di selezione della razza era lo spessore del lardo dorsale, in centimetri;  l’infiltrazione di grasso tra le fibre muscolari era un apprezzabile elemento di sapidità e di tenerezza della carne.  Il lardo e la sugna erano usati come grassi di cottura per eccellenza,  ma il lavoro manuale faticoso, la minor sedentarietà nei trasporti  e lo scarso riscaldamento invernale nelle case,  tutto congiurava nel richiedere un’alimentazione ricca di grassi . 

Oggi, con il variare delle abitudini lavorative ed alimentari (stili di vita più sedentari e canoni estetici diversi),  la selezione, su richiesta del mercato, ha dovuto evolversi verso la produzione di un animale molto più precoce e magro, da  consumare come carne fresca, con un peso alla macellazione che non superi i 120 chili, con carne chiara e priva di infiltrazioni di grasso.  Anche nel prosciutto, quella “noce” ( si chiama proprio così) di grasso che si trova al centro della fetta, è oggi considerata un difetto che la selezione cerca di  ridurre. 

LE BESTIE

Al vacch  ( al tòr, i manzoeu)

Erano per lo più di razza Brunalpina, ma anche Reggiana, (le belle Rosse col naso chiaro), Modenese e Romagnola ( quelle bianche o grigie). Le stalle erano piccole, di due, tre vacche in media. Chi ne aveva cinque o sei era già  “gente che stava bene”.  

La popolazione della stalla era un misto di colori e di forme diverse, rosse, grigie, crema quasi bianco, marrone scuro….con corna di tutte le forme. Avevano nomi ricorrenti, che ne celebravano il colore ( la Bianca, la Biza, la Mora, la Bionda ) o il carattere: La Bargnoéula, la Brüsca, la Grilla, la Cavalen’na.   

“Dominus Vobiscón,

cù boia ad cu Vigión,

l’ha vindü la Cavalen’na

par spuzar la Cataren’na“,

fu recitata dall’Antonietta ‘d Gilón, che era bambina, alle nozze di Vigion dai Tü  con la Catén ad Càbar.  Altri nomi rivelavano lo spirito del proprietario, come la Galanta, nome storico che non mancava quasi mai in un gruppo di vacche.  Questi nomi, in maniera allusiva, ma mai irrispettosa o volgare, venivano a volte riferiti alle donne di famiglia. “ O’ Bargnoéula….” Si diceva alla moglie permalosa, per esempio.  “Léé, Biza léé “, ( “Férmati, Bigia, férmati”)  poteva servire per raffreddare uno scatto di nervi. 

Le vacche erano considerate come un elemento prezioso e importante dell’impianto domestico, di cui erano la base economica. 

I bò erano i buoi bianchi dei quadri dell’Ottocento: nei nostri paesi  erano per lo più di razza Romagnola. Generalmente c’erano pochi che possedessero un paio di buoi, il cui mantenimento era piuttosto costoso, rispetto all’uso poco frequente. Coloro che li tenevano  li affittavano per i lavori dei campi, come si fa oggi con trattori e macchine.  Piero Simonetti (Tufi, classe 1908) aveva una vera passione per i suoi buoi, sempre candidi e lustri, che conduceva con un bastoncino munito di chiodo sulla punta, il pungolo  ( in dialetto si chiamava   “à stómbal”). Tenevano i buoi anche le famiglie più benestanti : i Miclèn, i Tugnàtt. 

I cunè 

I pulèstar

Al gale’n, al gal, i puién

I capòn

I pit

I nàdar

Al gingén

Al pègri, al brich, i agnèi

Al crav, i cravàj

Al begh ( le api) (al bugn = l’arnia)

Al ninén, al gugnén, (inteso come maiale vivo)

Al nimal ( inteso come animale da carne o già macellato) 

Intendo dire che si portava da mangiare al gugnén, ma si ammazzava al nimàl.  Ci sono tecniche,  figure  e coreografie  celebratissime e particolari per l’uccisione e la macellazione del maiale, vero rito collettivo ed emblematico di questa civiltà. 

I cavaj

L’azin, 

al  mül  ( i müj  ) 

 

Gli animali selvatici

Al gat püss, al tass, la vurpa, la lèvra, al lu, a signàl, a cavarioéul,

La bèlra

La gusàtta, al ghir 

La tuparra = la talpa

A ‘ cavarioeul = capriolo 

Gli uccelli

al crov, al pigass, al re d’ macia, la gaza, la pas’ra, al rundanén, i rundón, al mèral, la pujan’na, al falcâtt, la güella, la sivâtta, la pulcaren’na.

 

I rettili

la vippra, i bisón, la bissa ( plurale al biss), la giüsastrella, al ringioeul, l’urbzen,

Tutti gli altri  (anfibi, molluschi, ecc…)

La lümaga (col guscio), al lümagott (senza guscio). Tutti i vermi si chiamano bégh, da quello della ciliegia al lombrico, senza distinzione. Solo i parassiti dei bambini e degli animali si chiamano “i vermi”. Si badi che qui “vermi” deriva non dall’italiano  verme, bensì dell’antico  “vermine”, e quindi si dice “al vermi” al singolare e “ i vermi” al plurale, così come “termi” significa “termine, confine” sia al singolare che al plurale. ( se derivasse da “verme” si direbbe “verm” ).   La sanguisuga  era presente in quasi tutte le acque potabili, non solo indisturbata, ma, anzi, benvista,  come  garanzia di limpidezza, come un piccolo Genio della Sorgente,  e si chiamava la Sansülga.

Al ran, i rosp. I girini si chiamavano “i testón”.

La Madra Lisandra  (salamandra). Detta anche Vaca Varoéula.

Gli insetti 

La Simmia, al gril, al parpàj, 

al vresp, i gavarón, 

al crav e i coeugh ( zecche e altri insetti parassiti succhiatori)…. 

Al plugh e i piòcc. Al sìmmaz ( sing. La simza.)

 I piòcc’ pulén

i brüz( i minuscoli vermi del salume o del formaggio),  i scarafass,, al béegh ( api), legati all’ambiente e ai prodotti domestici.

Tutti gli altri generalmente vengono liquidati come  “a gh’è dal bastiulèn”.

E, infine,  

I pipistrèj, 

Non esistono parole per indicare gli animali non consueti e che quindi non era necessario nominare nel discorso: La tartaruga, i diversi tipi di pesci, gli uccelli meno comuni, il cervo… Tra gli  animali selvaggi si parlava appena d’al lion, ad l’elefant, ad’ la simmia e d’ j simiòtt. 

 LE MOSCHE

 Le mosche erano ovunque, sempre. Dalla primavera all’autunno inoltrato.  Nascevano a milioni nelle letamaie dietro le stalle, accompagnavano le bestie al pascolo e tornavano indietro la sera, con loro.  Le code delle vacche sventagliavano ritmiche tutto il giorno, per cacciarle un attimo. Le mosche erano in casa, cascavano nel latte, si posavano sulle stoviglie e sui cibi, sulle persone e sui muri. I vetri delle finestre e il piatto della lampadina erano costantemente costellati di puntolini neri: macchioline di mosche, appunto. Dentro le stanze, d’estate, il ronzio era incessante. Dopo aver rigovernato le donne le cacciavano con un panno sventolato verso la finestra, poi chiudevano le persiane e lasciavano i vetri aperti, così le mosche sarebbero uscite, verso la luce del sole. Nelle stanze il silenzio assoluto era ricamato dal leggero ronzio di qualche mosca ritardataria.   In casa,  nelle cucine e nelle sale da pranzo, c’erano le carte moschicide. Erano dei cilindretti di cartone, simili alle cartucce dei fucili da caccia: si tirava una linguetta e ne usciva un lungo nastro giallo, arricciolato a cavatappo, semitrasparente e appiccicoso.  La linguetta si appendeva al soffitto, il cilindro di cartone faceva da contrappeso e sul nastro si andavano ad incollare inesorabilmente centinaia di mosche. Restavano lì, a ronzare per ore. 

Si usava, per eliminarle, anche il flit, un tubo a stantuffo, di latta, con un manico di legno e un serbatoio rotondo che si poteva riempire di insetticida quando era vuoto. Erano gli anni del boom del Ddt, e se ne fece un uso generoso e inconsapevole.

Un altro attrezzo contro le mosche, era la moscaiola ( la muscaroéula) di vetro: una boccia di vetro in cui le mosche entravano attirate da un’esca di aceto e zucchero e poi non trovavano più il modo di uscirne e finivano per cadere sul fondo, dove c’erano due dita d’acqua.   Del resto ancor oggi usiamo trappole simili per le vespe. 

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