La pinsanèlla = l’altalena. Con un soghetto attaccato a un trave o ad un ramo .  

L’asin matt = ( abbastanza pericoloso)  Un legno robusto alto circa un metro, piantato nel terreno, con la punta verso l’alto, a fare da perno. Sopra questo veniva appoggiato un palo, lungo almeno quattro metri, con un buco al centro che si adattava al perno. Dopo di che i ragazzi si appoggiavano col petto sul legno orizzontale, metà di qua e metà di là, bilanciavano bene il peso e si mettevano a correre, sempre più veloci. Poi si alzavano  i piedi da terra e …si girava follemente, gridando.  Se vi pare un divertimento semplice … pensate un attimo alle giostre attuali: sono poco di più. O poco di meno. 

La Pèrdga dal lu = La pertica del lupo, cioè andare in giro a testa in giù, camminando sulle mani, era una prova di abilità e di forza, come del resto lo sono molti giochi, da sempre. E chissà che cosa c’entrava  il lupo: forse dava solo un senso di ardimento e di forza.

Al farlon   ( da “furlón”, frullone) = Era un osso di maiale, precisamente della zampa, che si faceva bollita, quindi  il gioco cominciava ad essere progettato e pregustato a tavola, mentre qualcuno rosicchiava ben bene l’osso per ripulirlo. E bisognava anche che un adulto fosse disponibile a collaborare perché  bisognava, in quell’osso, fare un buco, esattamente al centro . Nel  buco si passava uno spago che poi si annodava ad anello, si infilava in un certo modo sulle dita e si cominciava a farlo girare, cioè a frullare, sempre più veloce, più o meno secondo il principio del trapano a mano.   L’osso emetteva un ronzio sempre più forte e anche questo era un gioco in cui si misurava l’abilità.  

La stessa cosa si poteva fare con un bel bottone grosso. 

Fümar la sgüsergna .  Questo era proibito e naturalmente, lo facevamo tutti, almeno una volta. Dopo poche volte  ci si perdeva gusto, perché il fumo era acre e  pizzicava la lingua come peperoncino. Bisognava trovare delle liane di Sgüsèrgna  ( cioè di Vitalba) ben secche, con un buchino nel midollo che assicurasse il tiraggio, della lunghezza giusta, in quantità sufficiente. Poi bisognava rubare i fiammiferi, che stavano in cucina, sul camino, e se ne mancavano troppi le madri se ne accorgevano, quindi si litigava spesso,  per decidere chi dovesse procurarli. Infine ci si nascondeva, a volte proprio in un sgüsargnàr, cioè una di quelle cavità che si creavano sotto i cespugli, come piccole caverne vegetali, e si fumava, seduti in cerchio, come gli indiani. 

Buttare una borsa o un cappello, appesantito da un sasso, nel precipizio sulla cima del Groppo. Il gioco delle correnti ascensionali lo riportava, dopo un mezzo giro sul vuoto,  nelle mani del padrone.

GUARDA COME  SI FACEVA.

Con la buccia di un’arancia, tagliata a spirale senza romperla, o con un cartoncino  tagliato nello stesso modo e bilanciato su un ferro da calza, si costruiva una specie di elica  a  moto perpetuo, azionata dal calore della stufa, ed era semplicemente bella da vedere. 

FILASTROCCHE

Andàma a Barsàj, 

‘ndu gh’è la crava ca pissa l’azàj; 

s’at cat anca al cravén 

at limpissa un bucalén.

Andiamo a Berceto, 

dove c’è la capra che piscia l’aceto.

Se trovi anche il caprettino 

te ne riempie un boccalino.

La simia dal cül plà     

l’è tri an c’la n’à cagà

l’è ‘ndà in t’al cagadùr   

la gh’è stà ventequatr’ur

La scimmia dal culo pelato, 

è tre anni che non ha cagato; 

è andata nel cagatolo 

e c’è stata ventiquattr’ore. 

Oppure: la gh’è andà stamatén’na, la n’ha fat ‘na caretén’na . 

Ma la prima versione è, senza paragone, più immediata ed espressiva.  Ho sentito la seconda sempre dalle donne, perché, con quei diminutivi,  sembra meno volgare. 

Al tempo dei “monti”, la stagione dei fieni, si incontravano sui prati del crinale, verso San Matteo, “cü d’Agna e cü ‘d Musiara” e si salutavano rimandandosi, a voce altissima, punzecchiature di questo genere:

“O cü d’Agna, antìgh antìgh, ignurant ac’mè ‘l furmigh…”

E quelli d’Agna rispondevano:

“Cü ‘d Müsiara e gh’er’n in ott, par masàr un lümagott…”

Così quelli di Ballone, di rinforzo, completavano:

“Se ‘n ghe riva voeun ‘d Balon n’erin propri miga bon”.

Questa filastrocca che segue serviva come “conta” nei giochi, prima di iniziare un inseguimento o una cerca.  

Il gioco più semplice era quello universalmente noto: si stava tutti in gruppo intorno al bambino che recitava (cioè “stava sotto”), poi, nel momento esatto in cui finiva la filastrocca, tutti fuggivano in tutte le direzioni mentre quello cercava di acchiapparne almeno uno. 

Batta batta d’j cagnoéu,

con la stanga dìi varoéu

con la stanga dal büratt,

scapa via che t’aciapp!

Oppure:

Ghinén, ghinén, ghinaja,

marturén sut’a la paja,

paja pajoeul,

scapa chi poeul!…

( sembrerebbe che “marturén” sia proprio il piccolo mammifero selvatico, la martora).

Mignolén, spuzalén, paglialunga, strica d’ l’occ, massa i piòcc.  ( sono le cinque dita della mano)

E’ una delle innumerevoli filastrocche che si recitavano prendendo ogni dito del bambino fra il pollice e l’indice e scuotendolo leggermente.  Nel far questo si recitavano piccole frasi che  attribuivano ad ogni dito una sua precisa personalità. Il risultato atteso era la risata del piccolo. Naturalmente le dita dei piedini facevano molto più ridere, perché più sensibili al solletico.