L’aia su cui si batteva il frumento poteva essere lastricata con piane grandi e lisce, oppure di semplice terra battuta. Per battere il frumento però era necessaria una superficie piana e uniforme. Allora si “imbidava” il suolo. Con la bida, sissignori. Il letame delle vacche, in italiano, sui vocabolari, si chiama “Bovina”, o “Buina” e questa parola, in dialetto, si è trasformata in “Bida”. L’usanza di imbidare l’aia era usata fin dai tempi della battitura a mano e si faceva perché non andasse perduto nemmeno un chicco, nelle fessure tra le piane. Ma anche per non mescolare il grano alla polvere, durante la battitura, se il fondo era di semplice terra.
Oggi, in dieci minuti, stenderemmo un telo di plastica, grande quanto serve. Allora, invece, si faceva così…
GUARDA COME SI FACEVA….
A IMBIDARE L’AIA
Per qualche giorno prima della data prevista, un uomo esperto metteva da parte il letame, (dicevano fosse meglio il letame di bue) avendo cura di non mescolarvi dentro la paglia della lettiera.Il letame andava mescolato con acqua, fino a farne un impasto fluido. La mattina del giorno stabilito l’uomo incaricato dell’opera si toglieva scarpe e calze, e, a piedi nudi, con le braghe arrotolate fino al ginocchio, cominciava a imbidare l’aia. Versava una certa quantità di letame sull’aia, prendeva una scopa di frasche di carpanèlla (che non perdeva le foglie), buttava un po’ d’acqua sul letame, e, usando la scopa di frasche come un grande pennello ( …! ) raccoglieva illetame diluito e lo stendeva sull’aia. L’operazione veniva ripetuta, alternando letame e acqua, sempre lisciando la superficie, finché non si era coperto tutto il cortile. Il sole della giornata asciugava l’impasto e lo faceva diventare asciutto. “Diventava come una pelle, come una tela” (C) . L’impasto di letame ed acqua, una volta ben secco, non rilasciava nessun odore al frumento.
IL FIENILE
Era, di solito, sopra la stalla: da una botola si poteva gettare il fieno di sotto e riempire le greppie.
Non era un semplice magazzino di materiale inerte. Era un posto saturo di profumo intenso ed era, in un certo suo modo, vivo. Il fieno aveva certe sue fermentazioni profonde, sembrava secco e, sotto pochi palmi, era umido… Se si scavava un buco si incontrava un vapore caldo, come un fiato, che faceva un po’ paura. Dicevano che il gas sprigionato dal fieno fresco, in certi periodi, potesse intossicare chi ci si fosse addormentato dentro.
La porta del fienile era almeno a due metri da terra, ed era fornita di un ballatoio di legno, senza nessun parapetto, con la scala . D’estate si portava a casa l’erba seccata nei campi e si fermava il viòl carico sotto il ballatoio ; poi si cominciava a scaricarlo, con la forca, e a buttarlo “sul quadro”, dove i ragazzi lo calpestavano per pressarlo il più possibile. Erano tutti passaggi dal basso verso l’alto, a forza di braccia: bisognava esserci abituati, avere i tendini delle braccia duri come corde e gambe elastiche.
In un angolo, vicino alla porta, c’erano gli attrezzi per servirsi della quantità di fieno necessaria:
il lansèn, ( una sorta di arpione a manico medio) per sfilare piccole quantità, la vanga affilata, per affettare in verticale la porzione giornaliera, e infine la forca, per trasportare, muovere, raccogliere. Veder usare la forca nel fieno da chi sapeva farlo era un po’ come veder mangiare il riso con le bacchette: c’erano alcuni che, con quell’attrezzo così rudimentale, erano capaci di raccogliere pochi fili, rivoltarli e sistemarli in maniera esatta. E poi “caricare” la forca il più possibile e trasportare il fieno senza perderne nemmeno un filo. La quantità trasportabile si chiamava “ ‘na furcalà”.
LA STALLA
La stalla non aveva nulla a che vedere con le stalle della pianura, fatte per decine di vacche e circondate da pascoli. Le stalle di montagna erano fatte per tre o quattro vacche, raramente di più. Una stalla di cinque o sei vacche significava avere la disponibilità di tutta la terra che occorreva per sfamarle e di tutte le braccia che occorrevano per lavorarla, quindi la famiglia che aveva cinque vacche nella stalla era quasi benestante.
Quando, da bambina, mi parlavano della mangiatoia del Presepe, ce l’avevo già pronta nella memoria, era uguale a quella dove la gente di Agna teneva le bestie: tre o quattro vacche, piccole e forti e un vitello. C’era la greppia di legno, con le catene agganciate ai fori, l’angolo per le foglie e la paglia, finestre piccole coi vetri opachi di mosche, pareti di sasso intonacate di letame e lucide di vapore . Il ronzio delle mosche d’estate era assordante, i movimenti delle code e delle teste per cacciarle era continuo. Il rumore di sottofondo era il respiro e il ruminare dei corpi, qualche grugnito, qualche sbuffo….
La stalla si chiudeva solo di notte: di giorno circolavano liberamente galline e rondini. Nessuna stalla mancava dei nidi incassati sotto le travi, e poiché queste erano basse, si poteva vedere il traffico dei piccoli abitanti.
Per legare le bestie bisognava circondare il loro collo immenso con le braccia e infilare il gancio nell’anello, badando che l’animale non facesse movimenti bruschi con la testa, perché tu avevi la guancia quasi poggiata al suo orecchio, proprio dietro le corna appuntite… E non c’era vento che ti togliesse poi l’odore dal petto.
Al momento della mungitura la stanza si animava di rumori: i secchi, gli sgabelli, il ronzio dei getti di latte nel secchio, le imprecazioni dei mungitori per un calcio o lo schiaffo di una coda.
Nella stalla le vacche partorivano, i vitelli crescevano,
Nella stalla gli abitanti della casa andavano al gabinetto; ho visto spesso qualche uomo schiacciare il pisolino del pomeriggio un in t’al fujàr, ma non ho mai visto, come raccontano accadesse in altre zone, passare le serate nella stalla per risparmiare la legna del fuoco. Le “veglie” si facevano, a turno, nella cucina delle case e di legna ce n’era comunque abbastanza: i boschi erano tutt’ intorno e, se la legna in piedi aveva un padrone, un ramo secco era di chi se lo trascinava a casa .